Caro Lucilio ti scrivo (Calisti, Flavia)
- preside713
- 26 feb 2012
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CARO LUCILIO TI SCRIVO
“Comportati così , Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell’agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo
tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro”[1].
Sembra incredibile, ma la straordinaria attualità di questo testo, risale in realtà alla metà del I secolo d.C.
Inizia così infatti la prima delle 124 lettere conservatesi del carteggio intercorso tra Seneca ed il suo amico-discepolo Lucilio. Il tema del tempo è forse il più affascinante. In una società caotica e troppo presa dalle incombenze quotidiane per ricordarsi di vivere, le parole di Seneca denunciano la loro incredibile modernità. “Insegnami che il valore della vita non consiste nella sua durata, ma nell’uso che se ne fa; che può accadere, anzi accade spessissimo, che chi è vissuto a lungo è vissuto poco”[2], così scrive il filosofo, ed ancora: “Come è insensato disporre della propria vita, se non siamo padroni neppure del domani! Come sono pazzi quelli che danno il via a progetti lontani nell’avvenire: comprerò, costruirò, darò denaro in prestito, ne riscuoterò, ricoprirò cariche, e alla fine passerò in ozio, stanco e soddisfatto, la vecchiaia. Credimi: tutto è incerto, anche per gli uomini fortunati; nessuno deve ripromettersi niente per il futuro; anche quello che abbiamo fra le mani ci sfugge e il caso tronca l’ora stessa che stringiamo (…). Il termine della nostra vita sta dove l’ha fissato l’inesorabile ineluttabilità del destino; ma nessuno di noi sa quanto si trovi vicino alla fine; disponiamo, perciò la nostra anima come se fossimo arrivati al momento estremo. Non rinviamo niente; chiudiamo ogni giorno il bilancio con la vita. Il difetto maggiore dell’esistenza è di essere sempre incompiuta e che sempre se ne rimanda una parte. Chi dà ogni giorno l’ultima mano alla sua vita, non ha bisogno di tempo; da questo bisogno nascono la paura e la brama del futuro che rode l’anima (…). Come sfuggire a questa inquietudine? In un solo modo: la nostra vita non deve protendersi all’avvenire, deve raccogliersi in se stessa; chi non è in grado di vivere il presente, è in balia del futuro. Ma quando ho pagato il debito che avevo con me stesso, quando ho ben chiaro in testa che non c’è differenza tra un giorno e un secolo, posso guardare con distacco il susseguirsi dei giorni e degli eventi futuri e pensare sorridendo al succedersi degli anni (…). Affrettati, perciò a vivere, Lucilio mio, e i singoli giorni siano per te una vita. Chi si forma così e ogni giorno vive compiutamente la sua vita, è tranquillo: se uno vive nella speranza, si sente sfuggire anche il tempo più vicino e subentra in lui l’avidità della vita e l’infelicissima paura della morte che rende altrettanto infelice ogni cosa (…). Scuotiamoci di dosso questa smania di vivere e impariamo che non importa quando subiremo quello che dobbiamo prima o poi subire; conta vivere bene, non vivere a lungo; ma spesso il vivere bene consiste proprio nel non vivere a lungo”[3]. Queste le sue considerazioni sul giusto impiego del tempo, ma altrettanto attuali risultano quelle sulla vera felicità, che se ben comprese e fatte nostre potrebbero essere un valido aiuto in questo tempo di crisi: “Non è felice, credimi, chi dipende dal benessere materiale. Poggia su fragili basi e gode di beni che vengono dal di fuori: la gioia, come è venuta, se ne andrà. Quella che scaturisce dall’intimo, invece, è durevole e stabile, cresce e ci accompagna fino all’ultimo: gli altri beni, apprezzati dalla massa, durano un giorno. “Ma come? Non possono essere utili e piacevoli?” Chi dice di no? Ma solo se dipendono loro da noi, non noi da loro. Tutti i beni soggetti alla fortuna diventano fruttuosi e gradevoli, se chi li possiede, possiede anche se stesso e non è in balia delle cose”[4]. Il segreto per vivere bene è semplice, come già predicava Epicuro: “«Se vivrai secondo natura, non sarai mai povero; se vivrai secondo le opinioni non sarai mai ricco». La natura ha poche esigenze, le opinioni moltissime”[5] e ancora “alla povertà manca molto, all’avarizia tutto”[6]. “Ha pochissime necessità – osserva lo stoico – l’uomo che ha pochissimi desideri. Se uno vuole quanto basta, ha ciò che vuole”[7]. Del resto: “Povero non è chi ha poco, ma chi vuole di più. Cosa importa quanto c’è nel forziere o nei granaî, quanti sono i capi di bestiame o i redditi da usura, se ha gli occhi sulla roba altrui e fa il conto non di quanto ha, ma di quanto vorrebbe procurarsi? Mi domandi quale sia la giusta misura della ricchezza? Primo avere il necessario, secondo quanto basta”[8]. Chiude queste considerazioni una amara valutazione del vero male, la centralità data al denaro, che porta con se disvalori e corruzione: “Ammiriamo le pareti ricoperte da marmi sottili, eppure sappiamo che cosa c’è sotto. Inganniamo i nostri occhi e quando ricopriamo d’oro i soffitti, ci compiacciamo di un inganno: sappiamo che quell’oro nasconde delle brutte travi. Ma ricoperti da sottile ornamento non sono solo le pareti e il soffitto: anche la felicità di tutti costoro che vedi camminare a testa alta è unicamente esteriore. Guarda bene e vedrai quanto male si annidi sotto questa sottile patina di dignità. Da quando si è cominciato a onorare il denaro, che incatena tanti magistrati e tanti giudici, che crea magistrati e giudici, le cose hanno perduto il loro vero valore, e noi, diventati ora mercanti, ora merce in vendita, non consideriamo la qualità, ma il prezzo; per interesse siamo onesti, per interesse disonesti, e la virtù la pratichiamo finché c’è una speranza di guadagno, pronti a un voltafaccia se la scelleratezza promette di più”[9].
Come a dire “niente è cambiato”, ma forse tutto potrebbe cambiare se imparassimo ad ascoltare meglio le sagge parole lasciateci da chi ci ha preceduto, fosse anche duemila anni fa. È questa universalità nel suo messaggio che fa di Seneca un classico, leggetelo, se non avete voglia di affrontare tutti e venti i libri delle sue Lettere, potete iniziare dal Breviario a cura di G. Reale edito da Bompiani, un consiglio, se vi piacerà leggete anche il De providentia, potrà darvi grande conforto nelle difficoltà della vita.
Flavia Calisti

[1] Lettere a Lucilio 1, 1-3. Le citazioni del presente articolo sono tratte dall’edizione Garzanti, trad. C. Barone.
[2] 49, 9.
[3] 101, 4-15.
[4] 98, 1-2.
[5] 16, 7.
[6] 108, 9.
[7] 108, 11.
[8] 2,6.
[9] 115, 9-10.
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