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Caravaggio da Messina a Roma (Laurenti, Stefania)

  • Immagine del redattore: preside713
    preside713
  • 1 lug 2012
  • Tempo di lettura: 11 min

La Resurrezione di Lazzaro nell’arte

Il miracolo della Resurrezione di Lazzaro è sicuramente uno dei temi che ha ispirato di più il mondo dell’arte nei secoli: dalle catacombe agli affreschi, dalle miniature alle tavole e alle tele tra Quattrocento e Cinquecento, fino al Seicento e oltre.

L’episodio si trova nel Vangelo di Giovanni[1] – Gesù risuscita Lazzaro di Betania – ed è l’ultimo e il più grande dei “Sette Miracoli” descritti dall’apostolo: il racconto occupa circa 50 versetti dell’undicesimo capitolo (1-44), ha un’insolita abbondanza di particolari e costituisce uno dei punti salienti del quarto Vangelo. L’evangelista riferisce che, mentre Gesù si trovava fuori dalla Giudea, gli fu recapitato un messaggio di Marta e Maria, sorelle di Lazzaro, le quali lo informavano che il fratello si era ammalato. Gesù, tuttavia, non volle partire subito per Betania – villaggio alle porte di Gerusalemme – dove Lazzaro abitava, e si trattenne ancora per due giorni là dove si trovava. Trascorsi i due giorni, preannunciò ai suoi discepoli che Lazzaro era morto e che egli lo avrebbe risvegliato, e si mise in viaggio. Giunse così a Betania[2] quando Lazzaro era ormai morto da quattro giorni[3]. Gesù si recò al sepolcro e tolta la pietra che chiudeva il sepolcro, gridò: «Lazzaro, vieni fuori!». Lazzaro uscì dal sepolcro, ancora avvolto nelle bende funebri[4]. E Gesù ordinò di liberarlo dai legacci e lasciarlo andare. Da questo momento, nel testo di Giovanni e ancor più nelle tradizioni apocrife, Lazzaro, ritornato in vita dal mondo dei morti, è il più scomodo e pericoloso testimone dei poteri di Gesù, e per questo i sommi sacerdoti pensano a più riprese di farlo uccidere. Il miracolo è al culmine del Vangelo di Giovanni: da una parte molti indecisi credono in Gesù, dall’altra i sommi sacerdoti e i farisei decidono di farlo morire. Viene presentato dal Vangelo come uno dei miracoli più importanti compiuti da Gesù e direttamente collegato con la sua Resurrezione: infatti è l’ultimo dei segni che Gesù Cristo compie prima della sua passione. La casa di Betania e la tomba furono meta di pellegrinaggi già nella prima epoca del cristianesimo, come riferisce lo stesso S. Girolamo. Più tardi, i pellegrini medievali ci informano che accanto alla tomba di Lazzaro era sorto un monastero beneficiato da Carlo Magno.

Nella descrizione dei miracoli, Giovanni inserisce una forte nota di emozione e di commozione. Nell’arte, tuttavia, questo aspetto è superato dalla raffigurazione del prodigio. Ma passiamo agli esempi.

Tra le immagini delle catacombe romane e Giotto ci sono 9 secoli di distanza. Eppure li unisce quella sottile ironia, quel gusto dell’orrido e del macabro così come del ridicolo che definisce il sepolcro di Lazzaro come la casetta disegnata dai bambini o fa stringere il naso con le dita della mano agli astanti per la puzza[5]. In Giotto Gesù, concentrato e teso, fa risorgere Lazzaro con il gesto della benedizione. Le figure che si coprono il volto, molto frequenti nelle rappresentazioni di questa scena, si legano all’esclamazione di Marta “emana cattivo odore”. Giotto segue scrupolosamente il Vangelo, ricavandone un’immagine di forte impatto: Lazzaro è strettamente avvolto nelle bende funerarie e sul volto appaiono i primi segni della decomposizione. Marta e Maria, che in altri momenti sono le rappresentanti di due opposte maniere di accogliere Gesù, qui si gettano concordemente ai suoi piedi. Due assistenti spostano faticosamente il coperchio in pietra del sepolcro.

L’ignoto miniatore del Libro di Ore di Maria di Borgogna (1477) ci mostra un sepolcro immaginato come una lettiga moderna e il morto che sembra un vero morto ridotto a scheletro dopo vari anni dal decesso. Maria, sorella di Lazzaro, s’inginocchia, mentre Marta è in piedi e discute: con il loro atteggiamento le sorelle rappresentano anche qui la vita contemplativa e la vita attiva. L’animoso Pietro fa da collegamento fra i due gruppi contrapposti dei credenti e dei miscredenti. Coloro che si turano il naso per l’odore sono scribi e farisei, avversari di Gesù, riconoscibili da vestiti e lineamenti caricati in senso negativo.

Dürer non segue la via più conosciuta e facile e il suo Lazzaro è insieme a Simeone ed è abbigliato come un importante personaggio ecclesiastico – quel vescovo di Marsiglia di cui ci parla Jacopo da Varagine nella sua “Legenda Aurea” quando afferma che Lazzaro andò a predicare in Francia con le sue sorelle e lì divenne il primo vescovo di Marsiglia[6]; o il vescovo di Cipro, come vuole la tradizione orientale, che durò nell’episcopato circa 30 anni; o entrambe le versioni supportate dal fatto che dopo il IX secolo le sarebbero state traslate prima a Costantinopoli e quindi in Francia dai Crociati.

Lorenzo Ghiberti divide la scena in due zone – il miracolo vero e proprio e il gruppo degli astanti – armonizzate da uno sperone roccioso leggermente inclinato. Le figure appaiono inscritte in un quadrato che non sfrutta tutto lo spazio disponibile e la presenza dello sfondo roccioso crea un trapasso graduale tra figure e sfondo, privo di forti chiaroscuri: lo spazio sembra così “avvolgente” (non più un semplice supporto dove collocare le figure), facendo da modello agli esperimenti di stiacciato di Donatello. Nonostante alcuni dettagli più espressivi la narrazione è pacata, basata sull’armonia dell’insieme con il calmo atteggiarsi dei personaggi, le figure hanno pose eloquenti, ma senza trasalimenti. Vi convivono con straordinaria sintesi sia elementi del gotico (come l’arcaicistica roccia spigolosa, antiquata già al tempo di Giotto) e del tardo gotico (come l’elegante e cadenzata linea del panneggio e i mantelli svolazzanti), sia elementi aggiornati all’antico, come le proporzioni dei corpi e la loro plasticità, di ispirazione classica. Ghiberti fece quindi una selezione tra i vari stimoli disponibili in quell’epoca, legati da una perfetta padronanza tecnica.

Alla fine del 1516 o all’inizio del 1517 Giulio de’ Medici (futuro Clemente VII) commissionò due pale d’altare per la cattedrale della sede episcopale di Narbonne, di cui era titolare dal 1515: una a Sebastiano del Piombo, laResurrezione di Lazzaro, e una a Raffaello, la Trasfigurazione[7]. Nell’abituale contesa tra Raffaello e Michelangelo alla corte papale fu naturale per il Buonarroti aiutare l’amico veneziano offrendogli i propri disegni per la pala, in particolare per le figure del Salvatore e di Lazzaro. Una lettera di Leonardo Sellaio a Michelangelo datata 19 gennaio 1517 accenna proprio alla doppia commissione, ricordando il disappunto del Sanzio per essere finito in quella sorta di competizione: «Ora mi pare che Raffaello metta sotosopra el mondo, perché lui [il Piombo] non la faca [faccia], per non venire a’ paraghonj»[8]. I due artisti ritardarono il più possibile il completamento delle rispettive pale per non rivelarsi per primi. Alla fine fu Sebastiano a consegnare la pala, che venne spedita in Francia, mentre quella di Raffaello rimase incompleta dopo la morte dell’artista, nel 1520 e successivamente trattenuta a Roma. L’opera di Sebastiano del Piombo invece, dopo le secolarizzazioni, passò per varie collezioni private, prima di venire acquistata dal museo londinese nel 1824, dagli Angerstein. Sebastiano Luciani detto del Piombo segue pedissequamente il disegno michelangiolesco tanto da riproporlo esattamente uguale. La scena, che di per sé si prestava a una rappresentazione dinamica, mostra il Salvatore che, rialzato leggermente su un gradino con un gesto eloquente, indica Lazzaro seminudo che si ridesta togliendosi le bende che lo avvolgono, nella sorpresa generale. Gruppi si accalcano sul primo piano, anche troppo affollato, mentre il respiro si allarga nel paesaggio nello sfondo, con ancora due gruppi di figure come quinte e una veduta cittadina con rovine e un ponte che ricorda Roma. L’orchestrazione cromatica spetta sicuramente a Sebastiano, che ormai si era definitivamente allontanato dal tonalismo veneto della sua formazione: spiccano infatti tonalità vivaci e contrastanti, anche se leggermente velate dall’atmosfera, che conferisce un’intonazione emozionale e misteriosa alla scena. Gesù assume in questo caso una posa energica e risoluta, suscitando un’ondata di sgomento fra i presenti. Non mancano nemmeno in questo dipinto le figure che si coprono il volto e il naso per il fetore. Marta, in piedi, reagisce animatamente al gesto di Cristo, com’è tipico del suo carattere pratico e impulsivo; Maria, l’altra sorella, è in ginocchio in una posa che esprime adorazione e trasporto verso Gesù; Lazzaro esce dalla tomba avvolto parzialmente da bende e teli funerari, ma con un fisico muscoloso e michelangiolesco; gli assistenti sono impegnati intorno alla tomba del morto.

Infine l’altro Michelangelo, il lombardo Merisi, il più noto Caravaggio. La storia di questo quadro è lunga e complessa: cercheremo di ricostruirla. Nel dicembre 1608, dopo aver terminato il Seppellimento di Santa Lucia per la chiesa omonima di Siracusa, e dopo essere fuggito dalle prigioni maltesi, Caravaggio è già a Messina e lavora per il ricco commerciante genovese Giovan Battista Lazzari, a una pala destinata alla chiesa dei Padri Crociferi a Messina[9] appunto: il tema è la Resurrezione di Lazzaro e la pala è consegnata sicuramente prima del 10 giugno 1609 – come i documenti notarili testimoniano. Secondo Francesco Susinno, il biografo settecentesco dei pittori messinesi, scegliendo questo soggetto per la tela il committente avrebbe voluto alludere alla sua casata. Inoltre Susinno narra di come il Caravaggio avrebbe preso a rasoiate la tela offeso per le critiche con cui il pubblico l’aveva accolta. Di questa prima versione, sostituita secondo la leggenda da un’altra realizzata a tempo di record sempre da Caravaggio, non è rimasta alcuna traccia ed è probabile che si tratti di un parto del fantasioso biografo, suggerito forse dal fatto che, essendo tutta la parte superiore del dipinto molto scura nonché vuota, sia stato eseguito in gran fretta al punto da sembrare addirittura incompiuto[10]. In realtà oggi dal restauro sappiamo che «Le indagini serviranno anche a capire se la scarsa leggibilità non sia dovuta piuttosto all’alterazione del colore impiegato nella preparazione, utilizzata “a risparmio” in molte zone del dipinto: in alcuni tasselli, infatti, anche togliendo la vernice, lo sbiancamento persiste».

La monumentale pala, una delle più intense dell’ultimo periodo dell’artista, viene citata anche dal Bellori (1613-1696):

« [...] Passando egli dopo a Messina, colorì a’ Cappuccini il quadro della Natività, figuratavi la Vergine col Bambino fuori la capanna rotta e disfatta ‘’assi e di travi; e vi è San Giuseppe appoggiato al bastone con alcuni pastori in adorazione. Per li medesimi Padri dipinse San Girolamo che sta scrivendo sopra il libro, e nella Chiesa de’ Ministri de gl’Infermi, nella cappella de’ signori Lazzari, la Risurrezione di Lazzaro, il quale sostentato fuori del sepolcro, apre le braccia alla voce di Cristo che lo chiama e stende verso di lui la mano. Piange Marta e si maraviglia Madalena, e vi è uno che si pone la mano al naso per ripararsi dal fetore del cadavero. Il quadro è grande[11], e le figure hanno il campo d’una grotta, col maggior lume sopra l’ignudo di Lazzaro e di quelli che lo reggono, ed è sommamente in istima per la forza dell’imitazione. Ma la disgrazia di Michele non l’abbandonava, e’ltimore lo scacciava di luogo in luogo. [...] ».

La scena è rappresentata in un interno, probabilmente una chiesa, come indica la grande cornice marmorea della porta dipinta sulla sinistra, poiché le chiese erano usate come cimiteri fino all’Ottocento. La luce cade dall’alto e colpisce direttamente il gruppo di Marta e Maria e dei monatti che, disseppellito Lazzaro, assistono stupefatti alla sua resurrezione. Per la rappresentazione del monatto che sorregge Lazzaro, Caravaggio si avvale del prestito del famosissimo gruppo ellenistico di Menelao che sorregge il corpo di Patroclo, più noto a Roma col nome popolare di “Pasquino”. Osservando con attenzione il dipinto, viene subito in mente la Vocazione di San Matteo dipinta qualche anno prima per la chiesa di S. Luigi dei Francesi: anche qui come allora, infatti, la luce è il simbolo della Grazia. Ma mentre nella tela romana la luce era diretta e creava contorni netti, qui è più soffusa e guizzante, creando un effetto di maggiore drammaticità. Per questo, il dipinto è uno dei più rappresentativi degli ultimi anni di Caravaggio, dedicati ad una maggiore sperimentazione sulla luce, tendente ormai a “cancellare” i personaggi. L’artista offre un’ennesima prova sapiente di regia, proponendo più fuochi di visione e ponendo il centro del dipinto in ciò che non si vede, essendo oltre il dipinto stesso. Sulla destra, il corpo morto di Lazzaro tra teschi e tibie riprende vita, chiamato da Cristo posto dalla parte opposta, tra un gruppo dinamico di astanti: alcuni si fanno spazio per vedere meglio, si alzano sulle punte dei piedi per sovrastare quelli che li precedono e seguire gli eventi, altri, voltandosi, guardano in direzione opposta verso la fonte di luce.

Tra queste figure è riconoscibile l’autoritratto di Caravaggio che, portando lo sguardo diritto verso destra, con le mani giunte, spalanca gli occhi verso un punto esterno all’immagine, quasi a seguire con lo sguardo la preghiera di Gesù al Padre[12]. Il realismo è sconvolgente: Lazzaro, obbedendo al gesto di un Cristo in penombra e quasi minaccioso nella sua imponenza, viene investito in pieno dalla salvifica luce divina che, come corrente elettrica, ne scioglie i muscoli irrigiditi dalla morte e gli ridona la vita; nell’atto di rinascere, egli stira le braccia mimando il gesto allusivo della croce. L’artificio retorico dell’autoritratto mette in evidenza il ruolo di testimone , proprio dell’artista, in prospettiva cristiana. Qui il fermento della luce sembra ormai avere qualcosa di farneticante: una luce che frizza e svapora come in brevi falò e si dibatte fra l’ombra che provenendo dall’incombente fondale attira a sé le figure. È come una crepitante scossa elettrica, la luce, nel corpo ancor rigido di Lazzaro che sente in sé rifluire la vita e in un drammatico sussulto spalanca le braccia, sospendendo di traverso, nell’aria abbrunata, il salvifico Segno della croce. Come in opere giovanili di Caravaggio – per esempio il Sacrificio di Isacco – la spiegazione del dipinto è fuori di esso: nell’allusione a una volontà ulteriore, a una voce che irrompe e che non può essere dipinta, ma solo indicata.

Da metà giugno i capolavoro del grande Caravaggio sarà in mostra a palazzo Braschi e poi tornerà a Messina nel Museo Regionale.

Stefania Laurenti

Bibliografia

(2009), Vangelo e Atti degli apostoli. Nuova versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, San Paolo edizioni

Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari (1999), I tempi dell’arte, 3 volumi, Bompiani, Milano

Giovan Pietro Bellori (1976), Le Vite de’ pittori scultori e architetti moderni, Roma 1672, ed. critica a cura di G. Previtali, Torino

Vincenzo Pacelli (1994), L’ultimo Caravaggio, EdiArt, Todi

Mia Cinotti (1985), Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, Giunti, Firenze-Milano

Nicola Spinosa (a cura di) (2004), Caravaggio. L’ultimo tempo 1606-1610, Napoli

Rodolfo Papa (2004), Caravaggio. Gli ultimi anni, Firenze-Milano, Giunti

FOTO

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Roma, Catacombe di Pretestato, IV sec.

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Roma, Catacombe di via Latina, IV secolo

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Ravenna, S. Apollinare nuovo, VI secolo

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Giotto, Resurrezione di Lazzaro, 1306, Padova, Cappella degli Scrovegni

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L. Ghiberti, 1401, Firenze, Battistero

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Resurrezione di Lazzaro, dal “Libro delle Ore di Maria di Borgogna”, 1477, Vienna, Accademia, codice 1857

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Michelangelo, disegno per Lazzaro (1516) per la pala di Sebastiano del Piombo, Londra, British Museum

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Sebastiano del Piombo, Resurrezione di Lazzaro, 1516-’19, Londra, National Gallery

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Caravaggio, Resurrezione di Lazzaro, 1609, Messina, Museo Regionale

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Menelao che sorregge il corpo di Patroclo, detto Pasquino

[1] Giovanni infatti è il solo evangelista che riferisce il miracolo.

[2] «Ora Betania distava da Gerusalemme circa 15 stadi»

[3] Il Vangelo fa questa precisazione forse perché gli Ebrei ritenevano che la decomposizione iniziasse il terzo giorno dopo la morte. Ciò serviva a togliere ogni dubbio su una morte che fosse apparente. Alcuni studiosi, anzi, ipotizzano che Gesù possa avere ritardato la partenza proprio con questo scopo.

[4] «Il morto uscì, con i piedi e le mane avvolte da fasce, e il viso coperto da un sudario»

[5] «[…] Era una grotta, e una pietra era posta all’apertura. […] Tolsero dunque la pietra. […] Marta, la sorella del morto, gli disse “Signore, egli puzza già. Perché siamo al quarto giorno”»

[6] Del tutto leggendario è invece il racconto secondo il quale Lazzaro e le due sorelle sarebbero stati gettati su una barca senza remi e senza timone e lasciati in balia delle onde, che avrebbero sospinto l’imbarcazione sulle coste della Provenza. Eletto vescovo di Marsiglia, Lazzaro avrebbe colto la palma del martirio all’epoca dell’imperatore Nerone.

[7] De Vecchi-Cerchiari, vol. 2, pagg. 122-123

[8] De Vecchi-Cerchiari, vol. 2, pag. 84

[9] detta anche dei Ministri degli Infermi.

[10] Molto danneggiato, soprattutto nelle cromie, alterate nel Settecento, il dipinto è stato restaurato dagli esperti dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro (Iscr), diretto da Gisella Capponi. Un lavoro complesso, che si è protratto per 6 mesi. L’intervento ha fatto riemergere il profilo del Cristo, le braccia spalancate di Lazzaro, di nuovo «vive» dopo il rigore della morte, l’autoritratto di Caravaggio confuso tra la folla e altri eccezionali particolari nascosti nella superficie ingiallita della tela, appesantita e danneggiata dalle ridipinture settecentesche e, più di recente, dal restauro eseguito nel 1951. Le antiche vernici e i tanti ritocchi subiti dall’opera, che avevano lo scopo di schiarire i toni caravaggeschi, considerati troppo cupi e drammatici, avevano anche prodotto microfratture sulla grande pala.

[11] Olio su tela, cm. 380×275

[12] «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma ho detto questo a motivo della folla che mi circonda, affinché credano che tu mi hai mandato» (Giovanni, 11, 41-42)

 
 
 

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