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I colori della passione – The mill and the cross (Laurenti, Fiandra)

  • Immagine del redattore: preside713
    preside713
  • 1 lug 2013
  • Tempo di lettura: 13 min

Durata 92 min

Regia: Lech Majewski

Paese di produzione: Svezia, Polonia

Interpreti e personaggi: Rutger Hauer è Pieter Bruegel, Charlotte Rampling è Maria, Michael York è Nicolaes Jonghelinck, Joanna Litwin è Marijken Bruegel.

In un’intervista Lech Majeski dice di aver vissuto con grande entusiasmo la scoperta di Bruegel, guidata dallo storico dell’arte Michael Francis Gibson. Il regista ritiene Bruegel «Il più grande filosofo fra i pittori», le sue opere gli ricordano i films di Fellini. Riprendendo le parole di Gibson, Majewski afferma che sarebbe impossibile trovare altrettante storie da raccontare in un dipinto del Novecento. Nasce da qui la voglia di tornare ai ‘Giganti’ del passato, non a caso ora che ha ultimato I colori della Passione ha iniziato a lavorare a un nuovo progetto su Dante Alighieri.

Il film ha partecipato alle seguenti manifestazioni: Sundance Film Festival 2011 – Selezione Ufficiale; 40th International Film Festival Rotterdam – Selezione Ufficiale; San Francisco Film Critics Circle 2011 – Menzione Speciale;

Viareggio EuropaCinema 2011 – Miglior Film Europeo, Migliore Regia internazionale, Miglior Attore Rutger Hauer;

Settima edizione di Popoli e Religioni Umbria International Film Fest – Miglior Film

Trama. Nel 1564 Pieter Bruegel il Vecchio completa la tela intitolata La salita al Calvario in cui rappresenta la “Passione di Cristo” ambientandola nelle Fiandre del suo tempo, oppresse dalla presenza spagnola. Filippo II (salito al trono nel 1556 alla morte di Carlo V) sta conducendo una feroce repressione contro i movimenti religiosi riformistici che suscitano reazioni negli ambienti colti ispirati dal pensiero di Erasmo da Rotterdam. Il pittore viene mostrato mentre sta concependo l’opera all’interno della quale colloca se stesso e i personaggi che lo circondano nella vita quotidiana. Carel van Mandel, primo biografo di Bruegel agli inizi del Seicento, definisce l’artista “pittore dei contadini” intendendo con ciò sottolineare le origini del soggetto preferito dall’artista – e questa lettura dell’opera impedirà una sua completa messa in luce sino alla fine dell’Ottocento. Il film di Majevski non si propone di collocare la figura di Bruegel nel filone

del cinema biografico e la novità non sta neppure sul piano tecnico. Già Tarkovskij nel 1974 aveva inserito un ‘tableau vivant’ ispirato proprio a Bruegel e al suo I cacciatori nella neve nel film Lo specchio e due maestri come Kurosawa con Sogni e Rohmer con La nobildonna e il duca avevano compiuto ulteriori passi in questa direzione (grazie ai mezzi tecnologici sempre più avanzati disponibili). I Colori della Passione è e vuole essere al contempo un’occasione di contemplazione e di meditazione. La sofferenza di Cristo è collocata nel qui ed ora di un popolo che, a sua volta, soffre. I persecutori sono spagnoli e Bruegel – interpretato da Rutger Hauer – osserva la loro protervia denunciandola nel quadro. Mentre traduce in immagini e colori il mistero della Passione il pittore non smette di riflettere sul presente osservandone i più intimi dettagli. Ci si trova così, con Majevski, a contemplare non solo il mistero nascosto nel divino ma anche quello che sottende gli aspetti più oscuri e profondi della concezione dell’opera d’arte. Sin dal folgorante inizio, in cui l’artista colloca gli esseri umani in carne ed ossa sullo sfondo del paesaggio da lui dipinto, veniamo fatti partecipi della scelta stilistica del film. Verremo accompagnati in un mondo e in un tempo che forse conosciamo poco. Ne osserveremo la quotidianità e vedremo come questa si traduca in simbolo alto. A partire dal mulino (The Mill) che domina dalla cima di una rupe l’ambiente circostante trasformato in dimora di un Dio che offre la materia prima per un pane che si trasforma in dono di sé. La circolarità dominante nel ritmo della composizione pittorica si riflette nel film e si muove all’interno della dinamica degli opposti Vita/Morte ben rappresentati dall’albero rigoglioso sulla sinistra e dal palo su cui si espongono al ludibrio della voracità dei corvi i corpi dei condannati dei quali ci viene mostrata la desolata sorte. «L’artista – ci dice Majevski –può riuscire ad entrare nei più reconditi pensieri della Madre che assiste al martirio del figlio così come è in grado di sospendere il fluire dell’azione rendendo compresente una sofferenza che si fa dono ogni giorno fino alla fine dei tempi». Bruegel esprime così il divino e la sua lettura del senso della vita osservando i bambini, gli uomini e le donne con le loro doti ma anche con le loro bassezze. Solo con un’arte che si rifà al vero del vivere è possibile tentare di comprendere il Mistero nella sua complessità. Senza avere il timore di raffigurare un Gesù che cade sotto il peso della Croce mentre la massa è attenta non a lui ma a raggiungere il luogo in cui assistere al macabro spettacolo della sua morte. Nello stesso istante la Madre, con Giovanni e le due donne, cerca di trovare una ragione a quanto accade e la camera – pennello digitale dei nostri giorni – ne contestualizza il dolore rendendolo universale. I colori della passione, che in Italia uscirà in circa 20 copie, è stato proiettato nei maggiori musei del mondo, dalla National Gallery di Londra al Louvre di Parigi, e, dopo un passaggio al Sundance del 2011, è stato acquistato da 55 diversi paesi, ultimo il nostro.

L’artista polacco Lech Majewski è venuto a Roma per presentare questa sua ultima opera cinematografica, THE MILL & THE CROSS (tradotto in I colori della Passione), film costruito su e, letteralmente, dentro il celebre quadro di Pieter Bruegel il Vecchio La salita al Calvario. Majewski non è nuovo raccontare al cinema l’arte e gli artisti. Sua è la sceneggiatura del Basquiat di Julian Schnabel, suo quel Wojaczec che raccontava la vita tormentata dell’omonimo poeta polacco. «Al cinema mi piace incontrare gli artisti, perché li trovo assai più interessanti dei gangster – spiega Majewski – I gangster non mi possono insegnare nulla, nulla che mi interessi, gli artisti sì. Se devo spendere del tempo della mia vita a realizzare o guardare un film, preferisco farlo con la possibilità di crescere, incontrando e dialogando con qualcuno che ammiri, mi interessa e mi può insegnare qualcosa. Per questo ho scritto Basquiat, per questo ho realizzato Wojaczec, film che poi ha influenzato opere come Last Days di Gus van Sant o Control di Anton Corbjin». Majewski si è detto particolarmente felice che il suo film sia sbarcato in Italia, per via di un legame antico e complesso, personale ed artistico, con il nostro paese: «Quando ero adolescente andavo spesso a Venezia – racconta – Mio zio insegnava al conservatorio di Milano e aveva una casa a Venezia, dove spesso m’invitava. Per andarlo a trovare prendevo un treno poco costoso ma lentissimo, che faceva una lunga tappa a Vienna e lì visitavo sempre il Museo di storia dell’arte: è stato lì che ho incontrato Bruegel per la prima volta, dato che la sua Sala X contiene tutti i suoi principali capolavori. Ricordo che a Venezia mi adoperavo per andavo a incontrare le star dell’arte contemporanea alla Biennale, ma passavo anche tantissimo tempo nella Galleria dell’Accademia, a vedere l’arte che non si poteva più fare. E lì c’è il mio quadro preferito, “La Tempesta” di Giorgione, che mi ha sempre ricordato tantissimo alcune scene di Blow Up di Michelangelo Antonioni: ecco, se Giorgione fosse vivo oggi, farebbe cinema, non dipingerebbe. Ed è anche merito di Antonioni se oggi sono qui: ricordo che nel ‘76 visitò la scuola di cinema che frequentavo in Polonia, che mi strinse la mano e mi augurò buona fortuna». Il legame tra arte e cinema per Majewski è ovvio e naturale (“per me sono la stessa cosa”), tanto che, sempre parlando del nostro paese, l’artista trova nei films di Federico Fellini numerosissime analogie con le opere di Bruegel, per il modo in cui sono presentati i personaggi e per lo stile rappresentazione in senso ampio. Un Bruegel che il polacco ammira moltissimo: «Di fronte alle sue opere, rimani letteralmente Ipnotizzato dalla sua arte e dalla sua psicologia. Sa perfettamente come farti entrare dentro il quadro, che è sempre composto da molti livelli: prima viene il racconto, poi il linguaggio dei simboli, abilmente nascosti, e poi in fondo la sua filosofia. Nessun altro nella storia dell’arte e della pittura faceva quel che faceva lui, nascondere i protagonisti del suo quadro. C’è una grande saggezza in questo: illumina in questo modo la miopia dell’agire umano, della nostra capacità di osservazione». Il tema dell’osservazione è centrale per Majewski, che ritiene che «viviamo in un’epoca di cecità. Facciamo tutto e possiamo fare tutto, ma non guardiamo più, non lo sappiamo più fare. Non cogliamo più il senso, i simboli. Ma se guardi attentamente una mela, a lungo, allora quella mela ti appare qualcosa di più, di più profondo. A quei tempi c’era invece abitudine a guardare e contemplare. E quando dipingevi la mela succedeva qualcosa di più complesso di una semplice riproduzione. È per questo che le opere di Bruegel possiedono una tale complessità, e quelle di oggi sono così insignificanti. Il saggista Michael Gibson, con cui ho collaborato per il film basandomi sul suo testo monografico sulla Salita al calvario mi ha confessato che potrebbe ancora scrivere centinaia di pagine su quel quadro, mentre io, quando ne devo stilare 30 su un pezzo di arte contemporanea, sono costretto a menare il can per l’aia, a parlare di nulla retoricamente. Perché oggi non ho più nulla a cui aggrapparmi». Dopo Bruegel, Lech Majewski si occuperà di Dante, e per motivi analoghi afferma: «Sto portando avanti un lavoro che lo riguarda, perché anche in questo caso sono davvero affascinato dalla densità concettuale della sua opera, da come avesse la capacità di contenere davvero tutto, l’intero suo mondo contemporaneo fisico, filosofico e metafisico in un’opera relativamente breve». Peccato non fossero state altrettanto brevi, e chiare e a volte secche come le risposte di Majewski, le domande di alcuni studenti della NUCT[1] presenti all’incontro, che afferravano il microfono con fare annoiato ed esordivano dicendo cose “parlerò piano perché la mia domanda è molto articolata” e iniziano a parlare con boria di piano figurativo e artistico, o di modalità di ricezione. Oggi non si sa più osservare, e forse non si sa più nemmeno essere umili.

Ma passiamo al protagonista del film preso in considerazione: Pieter Bruegel – detto Il Vecchio per distinguerlo dal figlio primogenito detto Il Giovane – nato fra il 1525 e il 1530 e morto nel 1569. L’elenco dei componenti delle famiglie Brueghel-Teniers – i cui rami fondanti si unirono il 22 luglio 1637, con il matrimonio di Anna Brueghel e David Teniers il Giovane – venne a collegarsi nel corso del tempo anche con le famiglie van Kessel e Quellinus. Per meglio rappresentare l’evoluzione della dinastia bisogna ricordare inoltre alcuni artisti che esulano dalla genealogia classica – come per es. Pieter Coecke van Aelst (suocero di Pieter il Vecchio) o Hubert Goltz. L’intero albero genealogico si estende in 6 generazioni. Il decesso di Pieter il Vecchio avviene ad un’età che noi non consideriamo nell’ambito dell’anzianità. Il suo essere Vecchio sta quindi nella paternità di un primogenito che seguirà le sue orme, ma anche in quella di una pittura che coglie e sa esprimere il sottile confine che separa le vicende quotidiane da quelle universali.

Pieter Bruegel il Vecchio, Salita al Calvario (1564), Vienna, Kunsthistorisches Museum. È firmato in basso a destra «BRVEGEL MD.LXIIII». Si tratta del lavoro su tavola di dimensioni più grandi di Bruegel. Nel 1566 era nelle collezioni di Niclaes Jonghelinck[2] ad Anversa e nel 1604 van Mander lo ricordò nei possedimenti di Rodolfo II a Praga. Trasferito poi a Vienna, nel 1809 venne requisito dai napoleonici e portato a Parigi, dove rimase fino al 1815. Più di 150 personaggi affollano la composizione, quasi tutti vestiti in abiti contemporanei in modo da attualizzare il dramma cristiano, come aveva già fatto, ad esempio, Jan van Eyck. Protagonisti assoluti della tavola non sono tanti i fatti evangelici, ma il teatro naturale della folla e il paesaggio. Nel brulicare di figure, fa eccezione il gruppo in primo piano a destra delle pie donne e san Giovanni che confortano Maria[3]. Quest’ultima figura è rappresentata attingendo alla cultura fiamminga del secolo precedente, riecheggiante volutamente i modi un pò arcaici di Rogier van der Weyden e Hugo van der Goes. Al centro, nell’indifferenza generale, Cristo è caduto nel trasporto della croce verso il Calvario, in alto a destra, dove in una radura si è già assiepata una folla di persone, disponendosi a cerchio. Tra le ‘sotto-scene’ riconoscibili, quella sinistra della moglie di Simone di Cirene che tenta di trattenerlo dall’andare ad aiutare Cristo; più a destra un carro conduce i due ladroni, consolati da due frati. Il momento rappresentato è quindi quello in cui Gesù è abbandonato dagli uomini, mettendo in scena il dramma dell’insensibilità dell’animo umano. A parte lo sperone roccioso, il paesaggio ricorda da vicino quello fiammingo, coi mulini a vento e con una città murata che simboleggia Gerusalemme. Oscuri presagi di morte sono disseminati qua e là, come le gazze nere, i teschi di animali, la macabra ruota issata su un palo, dove venivano messi a seccare – a monito – i corpi dei delinquenti giustiziati. Alla luminosa ariosità della sinistra fa da contrasto l’oscurità a destra, filtrata da passaggi cromatici finissimi che si riflettono anche nello spegnersi della vegetazione, da verde e rigogliosa a spoglia e quasi desertica. L’uomo vestito di bianco in basso al bordo destro è stato indicato come un possibile autoritratto del pittore, che si sarebbe rappresentato mentre guarda interdetto la scena.

Con THE MILL & THE CROSS (I colori della passione) Lech Majewski ha deciso di cogliere l’intimità di un Maestro mostrando come la complessità (e l’apparente banalità) del presente abbia bisogno dello sguardo dell’artista per potersi tradurre, senza forzature, in riflessione “alta”. Entrambi modulano la loro espressione artistica sulla figura del cerchio. Bruegel (che aveva trovato nel banchiere Niclaes Jonghelinck un mecenate) individua, grazie all’estro inventivo di Majewski, nella tela del ragno il focus su cui costruire una sua visione del mondo che passa attraverso la “Passione di Cristo” per puntare a quella dell’umanità intera: il suo Maestro decide di lavorare con la stessa strategia dell’aracnide il quale ha ben chiaro quale sia il centro della propria tela e il suo scopo. La circolarità in Bruegel coinvolge le mura della Città (sovrastata dall’Albero della Vita) in contrapposizione al Cerchio funebre (a destra del quadro) di chi attende solo di poter assistere a un’esecuzione e che merita che a sovrastarlo ci sia unicamente la ruota dell’esposizione alla Morte, strumento di tortura tra i più esecrabili. Ma la dimensione del cerchio si esalta in un film che si apre su una notte in cui delle torce fanno luce così come il regista vorrebbe tentare di illuminare i significati più nascosti di un’opera d’arte. Dalle ruote che consentono al Mulino di trasformare il grano in farina fino al ballo finale la circolarità domina sia visivamente che concettualmente. All’interno di essa agisce una visione che ci si aspetterebbe centripeta (il Cristo e la sua Passione) ma che si rivela invece centrifuga.

Nel film si alternano analisi da parte dell’autore dell’opera – interpretato da Rutger Hauer – e scene tratte dal quadro stesso. Il Gesù di Bruegel/Majewski è al centro dell’azione con la sua caduta sotto il peso della Croce ma chi lo circonda non ne percepisce l’essenzialità preferendo volgere lo sguardo o verso il Calvario o verso il Cireneo che viene strappato alla sua compagna per trovarsi costretto ad aiutare il Cristo. L’intervento di Majewski non si riduce a una sorta di osservazione entomologica dell’opera d’arte utilizzando freddamente ciò che la tecnologia gli mette a disposizione; va oltre sotto più punti di vista. Così come inizialmente aveva utilizzato il linguaggio cinematografico con le dissolvenze incrociate con cui ci faceva entrare in contatto con il bosco da cui si sarebbe tratto il legno per realizzare la Croce, così fa del Cinema uno strumento di riflessione teologica e storica. Il Dio di Majewski è chiuso non più in una torre d’avorio ma in un mulino (il The Mill del titolo) da cui domina il mondo che ha creato con sguardo distante pur offrendogli la farina per le Ostie. Ma anche l’artista (e quindi il regista) è un dio, seppure minore. Può condensare in un quadro/fermo immagine il senso complesso dell’esistere. Può fare di una tela un grido di protesta nei confronti di un’oppressione e può vedere nel Cristo una “minaccia per ogni idiota pericoloso il cui interesse non coincideva né con Dio né con gli uomini ma con le sue miserabili certezze e il proprio potere”. Il re spagnolo che devasta l’amore di una coppia per uccidere un eretico, pretende di difendere Gesù ma è lui stesso – nell’opera di Bruegel – a metterlo a morte con i suoi sgherri prezzolati. La lettura degli avvenimenti può essere quella circoscritta del banchiere che vede nel Calvario il tentativo di schiacciare la Riforma; ma lo sguardo può essere più ampio e complesso grazie a quell’umanità variegata che Bruegel sapeva osservare e che Majewski ci ripropone con una finalità precisa. Ci ricorda infatti, nella sequenza finale, quanto sia sterile “rinchiudere” le opere d’arte in musei finendo così per ammirarle senza amarle (e quindi comprenderle) nella loro infinita attualità. Un’attualità che il cinema sa spiare così come uno tra i più piccoli tra i figli del pittore spia la nudità della madre. Senza malizia ma con stupore e curiosità dinanzi alla manifestazione della perfezione della bellezza.

Guido Fiandra e Stefania Laurenti

Bibliografia

Roberto Escobar, Mugnaio divino, in “L’Espresso” – 5 aprile 2012

Alberto Crespi, Squarci di Bruegel sullo schermo, in “L’Unità” – 30 marzo 2012

Dennis Harvey, ……………………, in “Variety” – 30 marzo 2012

Gianni Rondolino, Geniale Passione dove il quadro prende vita, in “……….” – 10 aprile 2012

Fabio Ferzetti, La video arte della Passione, in “Il Messaggero” – 30 marzo 2012

Pino e Rossella Farinotti, I colori della passione: il cinema traduce l’arte nobile, in “……………..”

Valerio Caprara, Il Calvario secondo Bruegel, in “Il Mattino” – 30 marzo 2012

Arianna Di Genova, Povero Bruegel, così è soporifero, in “Il Manifesto” – 30 marzo 2012

Roberto Nepoti, Una tavolozza digitale per i quadri animati di Pieter Bruegel, in “La Repubblica” – 30 marzo 2012

Giancarlo Zappoli, Una profonda contemplazione del mistero dell’arte, in “MyMovies”

Steve Barnes, …………………, in “ARTnews” – ottobre 2010

Una meditazione stimolante e seducente sull’immagine e il racconto, sulla religione e l’arte, in “The New York Times”

Un passaporto per terre ignote, in “The Village Voice”

Una realizzazione straordinaria nata da un’idea straordinaria, in “Newsday”

Il processo creativo dell’opera di Bruegel diventa un meta-banchetto visivo, in “New York Post”

Stupefacente esperienza immersiva, in «Esquire Magazine»

Emmanuel Bénézit, Dictionnaire critique et documentaire des peintres, sculpteurs, dessinateurs et graveurs de tous les temps et de tous les pays, Edizioni Gründ, 1999

Didier Bodart, Il dipingere di Fiandra: 100 dipinti fiamminghi dal ‘400 al ‘700, Viviani arte, 1999

Jean-Philippe Breuille, Dictionnaire de la peinture flamande et hollandaise du Moyen Âge à nos jours, Larousse, Parigi 1989

Charles De Tolnay e Piero Bianconi, Tout l’œuvre peint de Bruegel l’Ancien, Flammarion, Parigi 1981

Robert Jones et Alii, Bruegel, une dynastie de peintres, es: Edizioni Palais des Beaux-Arts, Bruxelles 1980

Luigi Mallé, Atlante della pittura: maestri fiamminghi, Istituto Geografico de Agostini, 1965

AA.VV., Les Grands Maîtres de la peinture, Edizioni Hachette, 1989

Pietro Allegretti, Bruegel, Skira, Milano 2003

Jean-Baptiste Descamps, La Vie des Peintres flamands, allemands et hollandois, 4 volumi, 1753

[1] NUCT Scuola Internazionale Cinema e Televisione – c/o Cinecittà Studios.

[2] Nel film interpretato da Michael York.

[3] Nel film interpretata da Charlotte Rampling.

FOTO

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Il regista Lech Majewski (al centro) con Rutger Hauer (Bruegel) e Michael York (Nicolaes Jonghelinck)

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Pieter Bruegel il Vecchio, Salita al Calvario, 1564, Vienna, Kunsthistorisches Museum

[1] NUCT Scuola Internazionale Cinema e Televisione – c/o Cinecittà Studios.

[2] L’’lenco dei componenti delle famiglie Brueghel-Teniers – i cui rami fondanti si unirono il 22 luglio 1637, con il matrimonio di Anna Brueghel e David Teniers il Giovane – venne a collegarsi nel corso del tempo anche con le famiglie van Kessel e Quellinus. Per meglio rappresentare l’evoluzione della dinastia bisogna ricordare inoltre alcuni artisti che esulano da tale elenco – come per es. Pieter Coecke van Aelst (suocero di Pieter il Vecchio) o Hubert Goltz. L’intero albero genealogico si estende in 6 generazioni.

 
 
 

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