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Il tema del “Concerto” tra Musica e Arte (Laurenti, Stefania)

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    preside713
  • 1 lug 2013
  • Tempo di lettura: 13 min

Sebbene a lungo siano state considerate due discipline di diverso valore, i rapporti tra la musica e la pittura sono sempre stati intensi e importanti. Non sappiamo se nell’antichità ai pittori venisse riservato lo stesso rispetto che si aveva per i musicisti; sappiamo però che nel Medioevo occidentale – dunque in piena epoca cristiana – la musica era considerata un’attività intellettuale di serie A, sorella della matematica e della geometria nel far impiegare la ragione teorica, mentre la pittura era invece ritenuta un’attività artigianale, basata solo sull’attività manuale. Non tutta la musica, per la verità, meritava uguale considerazione. C’era la musica sacra, nobile, colta, affidata solo agli organi e alla voce umana, e quella profana, ignobile, licenziosa, popolare, spesso di soggetto amoroso. Fino a quando anche alle arti figurative non è stato riconosciuto uno status intellettuale, la pittura si è dunque trovata nella situazione di dover rappresentare la musica come qualcosa di più elevato rispetto a se stessa: ecco perché lo ha fatto a lungo in forma simbolica, accompagnando le rappresentazioni con santi o figure bibliche, con le quali si certificava che la musica rappresentata fosse sacra.

«La musica è una cosa misteriosa. Quando l’ascoltiamo essa ci suggestiona, ci eleva, ci anima, ci culla, ci rattrista, ci turba. Rende più importanti noi e il mondo in cui risuona, sia esso il mondo di ogni giorno o quello fantastico di un film o di una pièce teatrale. Illumina particolari oggetti, avvenimenti, espressioni o gesti di per sé irrilevanti dando loro un nuovo significato»[1].

In questa prospettiva la musica ha il potere di valorizzare anche gli aspetti più semplici e minuscoli della vita, di evidenziare i moti emotivi e affettivi più intimi, di rendere più familiare e umano il mondo esterno, così che niente vada disperso. La musica giunge là dove la parola non arriva. Debussy diceva che la musica «esprime l’inesprimibile all’infinito»[2]. La musica può portarci lontano, nell’immensità delle sensazioni, delle emozioni, degli affetti. La musica porta al divino, perché ha in sé tracce della trascendenza come afferma Plutarco definendola «invenzione divina»[3] o come scrive Addison: «Musica, il più grande bene che i mortali conoscano. E tutto ciò che del paradiso noi abbiamo quaggiù»[4]. Comunque sia, grazie alla musica possiamo viaggiare nell’infinito e nell’eterno e ritornando nella piccolezza del nostro essere ci sorprendiamo rinnovati, rinvigoriti e affinati.

Due le grandi svolte che coinvolgono i rapporti tra la musica e la pittura prima del Novecento, quando Kandinskij ispira il suo astrattismo a quello della musica. Nel Quattrocento, con l’avvento della società laica, la musica profana, suonata attraverso i liuti, i pifferi o i tamburi, riesce finalmente a diventare un soggetto pittorico frequente. Lo è specialmente in Veneto, grazie a maestri come Bellini, Carpaccio, Tiziano, soprattutto Giorgione, anche perché la musica di argomento amoroso diventa una moda della nobiltà tra il Quattrocento e il Cinquecento. Ecco allora apparire una serie di Concerti, spesso campestri, ad evocare il clima dell’Arcadia classica, e di giovani ritratti mentre suonano, non più preoccupati di praticare musica non sacra. L’altra grande svolta si verifica all’inizio del Seicento, quando Caravaggio inventa una pittura di genere che rifiuta le tradizionali gerarchie al posto del soggetto storico e religioso. Nella pittura di genere caravaggesca, diffusa in tutta Europa dal metodo del seguace Bartolomeo Manfredi, c’è grande spazio per l’arte dei suoni: ora rappresentata nella forma giorgionesca/tizianesca, anche se ambientato in inedite scenografie di taverne o di bordelli, ora invece nella nuova forma della natura morta che impiega non di rado anche gli strumenti musicali[5].

In Tiziano il Tema del Concerto o più genericamente della Musica è molto sentito e M. Dvorak tra il 1918 e il 1921 così lo esprime: «Così, tra gli ultimi lavori di Tiziano troviamo quadri che non intendono essere altro che sinfonie cromatiche, e sarebbe puerile il volerli misurare col metro dei disegni naturalistici o accademici. Il colore, nel quale le ricchezze di una tavolozza inesauribile si uniscono in un effetto pressoché monocromo, vibra come una creatura viva, all’unisono con la sensibilità dello spettatore. E quest’emancipazione dei valori espressivi coloristici ha schiuso un gran numero di possibilità nuove alla pittura: a lei dobbiamo buona parte degli effetti dell’arte della composizione barocca, esaltati fino alla massima tensione dell’immaginativa. L’esperienza così ottenuta determinò il cammino di quella pittura eccessiva, che vide il proprio compito principale nella resa dei processi coloristici naturali. In tal modo, anche qui il nuovo idealismo ha schiuso nuove possibilità a un susseguente naturalismo».

Tiziano, Concerto interrotto (1507-1508). Oggi conservato a Firenze, vi arrivò nel 1654 prima acquistato dal cardinale Leopoldo de’ Medici come opera di Giorgione, e poi confluito nelle collezioni dei Granduchi di Toscana. L’educazione musicale, all’epoca, era parte integrante della formazione di un gentiluomo, e dipinti su concerti e musicisti erano molto frequenti, soprattutto in area veneziana. La teoria neoplatonica celebrava soprattutto la musica “cittadina”, quella fatta con gli strumenti a corda e la voce, contrapposta alla musica incolta, quella campagnola e disordinata fatta dagli strumenti a fiato e dalle percussioni. Su uno sfondo scuro si stagliano tre personaggi a mezza figura: un giovane con un cappello piumato, un uomo vestito di nero che suona una spinetta e un religioso (un agostiniano, forse) che tiene in una mano una viola o un liuto mentre l’altra è appoggiata sulla spalla dell’altro personaggio, ruotato all’indietro per guardarlo. Spicca soprattutto la figura centrale, con il ritratto estremamente intenso e veritiero, tra i migliori di Tiziano in assoluto: gli occhi sono incavati ed espressivi, gli zigomi appuntiti, le labbra rese realistiche dal neo sotto una narice; perfetta è la rotazione in alto verso destra, così come la resa delle vigorose mani, intente alla musica, apparentemente disinvolte ma abili e attente alla tastiera. IlConcerto di Firenze appare quindi come un celebrazione dell’armonia della musica “cittadina”, della viola, della spinetta e del possibile cantore a sinistra.

Tiziano, Concerto campestre (1510). L’opera originariamente apparteneva ai Gonzaga, forse già posseduta da Isabella d’Este; venne poi venduta prima a Carlo I d’Inghilterra e poi al banchiere francese Eberhard Jabach; quest’ultimo vendette il quadro a Luigi XIV di Francia nel 1671[6]. Nel 1863 Edouard Manet, affascinato dalle sue visite al Louvre, si dichiarò ammaliato dal Concerto campestre, che omaggiò nella celeberrima tela del Déjeuner sur l’herbe, capolavoro programmatico della pittura en plein air[7]. L’opera è stata tradizionalmente attribuita[8] a Giorgione, ma oggi la critica propende piuttosto per Tiziano. Non è escluso che il lavoro fosse stato avviato da Giorgione, al quale rimandano i temi della musica, dell’ozio pastorale e della rappresentazione simultanea del visibile e dell’invisibile, e poi completato, dopo la sua morte nel 1510, dal talentuoso allievo Tiziano[9]. Vi sono raffigurati tre giovani seduti su un prato che suonano, mentre vicino ad essi una donna in piedi versa dell’acqua in una vasca marmorea. Le due donne presenti sono entrambe nude, coperte appena da mantelli che scivolano via, mentre i due uomini, che parlano tra di loro, sono vestiti in costumi dell’epoca. Nell’ampio sfondo si vede un pastore e un paesaggio che, tra quinte vegetali, si distende a perdita d’occhio. Il soggetto dovrebbe essere un’allegoria della poesia e della musica, con le due donne dalla bellezza ideale, che sono come due apparizioni irreali generate dalla fantasia e ispirazione dei due giovani. La nudità dopotutto è legata all’essenza divina e la donna col vaso di vetro sarebbe la musa della poesia tragica superiore, mentre quella col flauto la musa della poesia pastorale. Tra i due giovani, quello ben vestito che suona il liuto sarebbe il poeta del lirismo esaltato, mentre quello col capo scoperto sarebbe un paroliere ordinario, secondo la distinzione operata da Aristotele nella Poetica. Alcuni hanno identificato la rappresentazione anche come un’evocazione dei quattro elementi che compongono il mondo naturale (acqua, fuoco, terra, aria) e del loro relazionarsi armonioso[10]. Inoltre l’accordo tra il liuto, strumento colto e “cittadino”, e il flauto, strumento rustico e campestre, era un tema legato alla teoria musicale neoplatonica, che nell’incontro degli opposti indicava la via per realizzare una conoscenza superiore. La donna che mischia le acque sarebbe quindi da leggere come simbolo di purificazione, ma anche di mescolanza, cioè armonia, dei suoni nell’accordo musicale, arrivando a quella concordanza tra musica mondana e musica celeste dei pitagorici. Tale teorie erano comuni nei circoli umanistici veneziani, animati da personalità come Pietro Bembo, Mario Equicola e Leone Ebreo[11]. L’arrivo del pastore da destra, inferiore per classe e per cultura, avrebbe dunque interrotto il concerto delle muse e dei due nobili, che si scambierebbero un’occhiata di perplessa circostanza[12]. La tonalità calda e dorata della luce del tramonto contribuisce a creare un’atmosfera da sogno. L’attenzione al dato vegetale in primo piano, ancora una volta, rimanda alla mai dimenticata lezione di Leonardo da Vinci.

Tiziano, Baccanale degli Andrii (1523-1526). L’opera fu l’ultima ad essere fornita da Tiziano per la Sala dei Baccanali nei Camerini d’alabastro di Alfonso I d’Este, dopo la Festa degli amorini (1518-‘19) e il Bacco e Arianna(1520-‘23), con un intervento anche sul Festino degli dei di Giovanni Bellini, nel 1524-‘25, dove ritoccò il paesaggio in modo da adattarlo allo stile degli altri dipinti. Il dipinto – oggi al Prado di Madrid – è firmato “TICIANUS F.[aciebat]”. Il legame profondo tra musica e piaceri dionisiaci è testimoniato dal foglio di musica che giace a terra, al centro del dipinto. In esso si legge un giocoso motto francese, che evoca il canone circolare di ripetizione che porta all’ebbrezza[13]:

Qui boit et ne reboit

Il ne scet que boire soit

«Chi beve e non ribeve non sa cosa sia bere».

La frase risale con ogni probabilità ad Adrian Willaert, compositore fiammingo in quegli anni a Ferrara[14]. Non ci sono tuttavia strumenti musicali che suonano: gli unici strumenti ritratti, al momento inutilizzati, sono solo i flauti diritti, due tenuti in mano dalle ragazze in primo piano e un terzo è a terra poco più indietro, presso un bicchiere colmo di vino, una coppa metallica rovesciata e un vassoio di libagioni[15]. Ma non bisogna dimenticare la produzione di scene erotico-mitologiche definite “poesie” dall’artista stesso come, una per tutte, la Venere con organista, amorino e cagnolino – riprodotta in più versioni per più committenti.

Caravaggio, Amor vincit omnia (1601-1603)[16]. Omnia vincit amor et nos cedamus amori[17] è una frase latina di Publio Virgilio Marone – tratta dalle Bucoliche. Nella decima ecloga Gaio Cornelio Gallo in seguito a una delusione amorosa professa la sua decisione di abbandonare la poesia elegiaca per quella pastorale ma infine è costretto a riconoscere la supremazia dell’amore che non conosce ostacoli e al cui potere ci si deve sottomettere. Una citazione di questa frase si trova nel Prologo Generale dei Racconti di Canterbury di Geoffrey Chaucer in cui la Madre Priora porta un ciondolo d’oro su cui si trova incisa questa frase.

«Michaele Angelo di Caravaggio, qui amorem omnia subigentem pinxit – omnia vincit amor, tu pictor et omnia vincis silicet ille animos, corpora tuque animos» Marzio Milesi

«…Per il marchese Giustiniani fece un Cupido a sedere dal naturale ritratto, ben colorito sì, che egli dell’opera di Caravaggio fuor di termini invaghissi…» Giovanni Baglione

«…colorì un amore vincitore che con la destra solleva lo strale, et ai suoi piedi giacciono in terra armi, libri, et altri stromenti per trofeo…» Giovan Paolo Bellori

L’amore trionfa su ogni cosa è stato eseguito su commissione di Vincenzo Giustiniani che lo pagò 300 scudi. Nel 1630 il committente fece redigere un inventario[18] delle sue collezioni, e l’incaricato, Joachim von Sandrart, ricordava che delle 15 tele di Caravaggio[19] una era considerata un capolavoro particolare: stando alle sue parole entusiastiche, il dipinto sarebbe stato su suo suggerimento coperto da un telo verde, in modo tale da non sfolgorare i visitatori con la sua bellezza e svilire le altre opere presenti. Il quadro rimase a Palazzo Giustiniani fino a quando fu inviato a Parigi nel 1812 insieme a gran parte dei quadri della collezione che fu comprata da un pittore, Chevalier Fered Bonnamaison, ed infine acquistata in blocco dal re di Prussia per lo Staatliche Museen di Berlino dove si trova ancora oggi. L’opera rappresenta la vittoria dell’amore sulle arti, qui riconoscibili nello spartito, nei libri e negli strumenti musicali ai piedi del fanciullo. Il quadro non è certo la rappresentazione astratta ed intellettualizzata dell’iconografia classica: le allusioni colte, infatti, sembrano sopraffatte dalla verità della scena, dall’atteggiamento sfrontato e provocante e dal carnalismo del nudo di giovinetto. Come modello, posò il garzone preferito di Caravaggio, Cecco Boneri[20]. I sostenitori dell’omosessualità di Caravaggio ritengono che il fanciullo “inviti” chi guarda, con un gesto della mano destra, a raggiungerlo; ma la sua posa a gambe divaricate e di compiaciuta licenziosità si rifà a Michelangelo Buonarroti (che Caravaggio ammirava) e per quest’ultimo la posa a gambe sollevate o divaricate sottintendeva resurrezione, vittoria, trionfo. Francesco Boneri è lo stesso apparso anche nella “Conversione di Saulo” e nel “Giovanni Battista”: che questo Checco fosse stato realmente garzone e assistente di Caravaggio e, come spesso era usanza, vivesse con lui, è accertato da alcuni documenti dell’epoca; si sa inoltre che lui stesso, identificato come Francesco Boneri, diventò uno dei pittori di maggior talento tra i seguaci di Caravaggio. Nel dipinto, come in altri del Caravaggio (si veda ad esempio “Il suonatore di liuto” e “Il concerto di giovani”), si leggono spartiti musicali che riproducono fedelmente pezzi ancora molto in voga e molto apprezzati proprio dai committenti: il marchese Vincenzo Giustiniani stesso fu autore infatti di molti trattati tra i quali un “Discorso sopra la musica”. Vicino agli spartiti, in secondo piano, vari strumenti che non sono colti nella loro funzionalità, ma dipinti come natura morta. Un’interpretazione vede il soggetto in relazione alla personalità del marchese, la cui preferenza documentata per questo quadro sarebbe indicativa di un concettuoso gioco verbale con il nome del marchese – Omnia vincit amor e Omnia vincit Vincentius. Considerando che il Giustiniani era particolarmente interessato agli oggetti rappresentati – che a lui si riferirebbero (violino, liuto, spartiti) – questi alluderebbero alle sue conoscenze musicali; mentre la squadra rappresenterebbe la geometria, alla quale il marchese dava molta importanza, la piuma ed il libro indicherebbero le sue facoltà letterarie, l’alloro sul libro la fama che viene dalle sue virtù, la corazza la sua qualifica da cavaliere, il globo stellato il suo rapporto con l’astronomia, lo scettro ricorderebbe il passato dominio dei Giustiniani sull’isola di Chio, mentre l’eros rispecchierebbe l’ideale neoplatonico risalente a Marsilio Ficino. Il provocante Amor Vincitore che si prende gioco dei valori tradizionali, può forse anche ben illustrare le inclinazioni epicuree del marchese.

Vincenzo – mente aperta e tollerante – e suo fratello Benedetto Giustiniani, genovesi “de Roma”, erano tra i personaggi più in vista della città papale. I due fratelli non si scandalizzavano delle figure “pasoliniane” che popolavano le tele del grande artista; e mentre Benedetto si preoccupava di aiutare le prostitute, Vincenzo si precipitava a comprare le opere di Caravaggio rifiutate dalla committenza bigotta.

Stefania Laurenti

Bibliografia

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[1] Maróthy, op. cit., p. 11

[2] Siohan, op.cit., p. 258

[3] Pseudo Plutarco, De Musica

[4] Addison, op. cit.

[5] Evaristo Baschenis etc.

[6] Vedi scheda nel sito del Museo del Louvre

[7] Zuffi, op. cit., pag. 32

[8] Incertezza nell’attribuzione è anche in Valcanover, op. cit., pag. 93

[9] Fregolent, op. cit., pag. 111

[10] Zuffi, op. cit., pag. 32

[11] Gibellini, op. cit., pag. 70

[12] Gibellini, op. cit., pag.70

[13] Gibellini, op. cit., pag. 96

[14] Lowinsky, op.cit., 1982

[15] Gentili A., op. cit.

[16] Risale probabilmente al 1602-1603, in relazione alla deposizione di Orazio Gentileschi resa in quell’anno, che sembrava riportare a fatti recenti Amor sacro e Amor profano del Baglione, dipinto in concorrenza e perciò non molto dopo l’amor terreno del Caravaggio.

[17] L’amore vince tutto, anche noi cediamo all’amore (Publio Virgilio Marone, Bucoliche, libro X, 69).

[18] Dall’inventario si legge “Amor vincit omnia, un quadro con un amore ridente, in atto di dispregiare il mondo, che tiene sotto con diversi stromenti, corone, scettri, et armature, chiamato per fama il Cupido di Caravaggio” – Palazzo Giustiniani, 1638

[19] Oggi solo 5

[20] Nel volto del dio molti studiosi del Caravaggio videro la raffigurazione del suo amante, come dimostrarono anche gli scritti di Rychard Symonds che, in visita a palazzo Giustiniani tra il 1649 e il 1652, tredici anni dopo la morte del marchese, sul suo diario fissò in poche parole il valore e la bellezza del quadro, registrando le enormi somme che alcuni erano disposti ad offrire per averlo e annotando appunto anche alcuni pettegolezzi sull’opera.

FOTO

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Tiziano, Concerto campestre, 1510, Parigi, Louvre

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Tiziano, Concerto/Concerto interrotto, 1507-‘08, Firenze, Galleria Palatina

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Tiziano, Baccanale degli Andrii, 1523-‘26, Madrid, Prado

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Caravaggio, Amor vincit omnia, 1601-’02, Berlino, Gemaldegalerie

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Evaristo Baschenis, Strumenti musicali

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Caravaggio, La Musica (Concerto di giovani), 1594-’95, New York, Metropolitan Museum

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Caravaggio, Suonatore di liuto

1595-’96, S. Pietroburgo, Ermitage

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1596-’97, New York, Metropolitan Museum

[1] Maróthy, op. cit., p. 11

[2] Siohan, op.cit., p. 258

[3] Pseudo Plutarco, De Musica

[4] Addison, op. cit.

[5] Evaristo Baschenis etc.

[6] Vedi scheda del Louvre

[7] Zuffi, op. cit., pag. 32

[8] Incertezza nell’attribuzione è anche in Valcanover, op. cit., pag. 93

[9] Fregolent, op. cit., pag. 111

[10] Zuffi, op. cit., pag. 32

[11] Gibellini, op. cit., pag. 70

[12] Gibellini, op. cit., pag.70

[13] Gibellini, op. cit., pag. 96

[14] Lowinsky, op.cit., 1982

[15] Gentili A., op. cit.

[16] Risale probabilmente al 1602-1603, in relazione alla deposizione di Orazio Gentileschi resa in quell’anno, che sembrava riportare a fatti recenti Amor sacro e Amor profano del Baglione, dipinto in concorrenza e perciò non molto dopo l’amor terreno del Caravaggio.

[17] L’amore vince tutto, anche noi cediamo all’amore (Publio Virgilio Marone, Bucoliche, libro X, 69).

[18] Dall’inventario si legge “Amor vincit omnia, un quadro con un amore ridente, in atto di dispregiare il mondo, che tiene sotto con diversi stromenti, corone, scettri, et armature, chiamato per fama il Cupido di Caravaggio” – Palazzo Giustiniani, 1638

[19] Oggi solo 5

[20] Nel volto del dio molti studiosi del Caravaggio videro la raffigurazione del suo amante, come dimostrarono anche gli scritti di Rychard Symonds che, in visita a palazzo Giustiniani tra il 1649 e il 1652, tredici anni dopo la morte del marchese, sul suo diario fissò in poche parole il valore e la bellezza del quadro, registrando le enormi somme che alcuni erano disposti ad offrire per averlo e annotando appunto anche alcuni pettegolezzi sull’opera.

 
 
 

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