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Un Viaggio nella Roma che fu a Palazzo Braschi (Calisti, Flavia)

  • Immagine del redattore: preside713
    preside713
  • 9 mag 2012
  • Tempo di lettura: 5 min

“Un tempo qui era tutta campagna”, quante volte ve lo siete sentiti dire mentre guardavate perplessi serie sconfinate di palazzi a perdita d’occhio.

“Un tempo qui era tutta campagna” quante volte avete ripetuto come un mantra questa frase mentre cercavate di distinguere, tra centri commerciali e condomini, i luoghi nei quali siete cresciuti[1].

Inutile sottolinearlo, la Roma di oggi ha dilagato oltre i suoi storici confini e si è riversata con il suo cemento ben oltre le mura che a lungo l’hanno contenuta. Una gestione sconsiderata del territorio ha reso così irriconoscibili tanti luoghi significativi della città e fa nostalgia, se non rabbia talvolta, vedere come sia cambiata Roma. Sono un aiuto prezioso, per poter ritrovare la Roma che fu, le foto d’epoca di inizio Novecento. Sfogliandole potreste imbattervi nel piccolo Forno che un tempo era alloggiato tra le Colonnacce del Foro di Nerva, nelle carrozze che ad ogni agosto accorrevano al grande lago di piazza Navona, ricordato dal Belli e da Zanazzo come vera “cuccagna”[2].

Ma prima ancora che arrivasse la fotografia a documentare le bellezze eterne della nostra eterna città, sono stati i pittori a raccontare con i loro colori e i loro pennelli gli scorci più belli e suggestivi di Roma.

La mostra dedicata ai vedutisti francesi fra XVIII e XIX secolo, a Palazzo Braschi fino al 27 maggio, ci conduce per mano dentro quel mondo di arcadici pastori e sfaccendati artisti che per oltre cento anni si sono mollemente abbandonati tra le rovine di Roma e della sua campagna. Passeggiando tra le opere di Hubert Robert e Abraham Louis Rodolphe Ducros si capisce come davvero un tempo “qui fosse tutta campagna”. Non solo la periferia, come la Cinecittà di Fellini (negli anni cinquanta talmente fuori dal centro abitato che il regista la immagina nel film L’Intervista come raggiungibile solo dopo aver attraversato paesaggi popolati da Indiani ed elefanti), ma anche il centro stesso della città era dominio di una flora a dir poco lussureggiante. Sono i toponimi a indicarci lo stato di abbandono in cui versava il cuore stesso della Roma Antica, un solo esempio su tutti: il Foro Romano è ormai divenuto il Campo Vaccino, il campo in cui pascolano le vacche. L’interro causato da secoli di incuria è in tale sito così significativo che nella piazza del Foro campeggiano alberi e case dove oggi si vedono le basiliche, il tempio di Vesta e la casa delle Vestali. Il livello di calpestio alle pendici del Campidoglio (il Monte Caprino!) era addirittura giunto quasi all’imposta dei capitelli del tempio dedicato al Divo Vespasiano. Stendhal divertito ricordava come a causa dei detriti non fosse stata a lungo visibile l’iscrizione dedicatoria della colonna di Foca, allora ritenuta una sopravvivenza del tempio di Giove Custode. Una pasquinata dell’epoca così canzonava gli accademici ciarlieri: «Un operaio con la sua vanga ha messo tutto in chiaro in due giorni; la mia gloria rinasce; sapientoni cretini, i volumi che avete scritto per dare un nome alla mia colonna formerebbero, l’uno sull’altro, una pila più alta della colonna stessa! Sareste stati più utili, e meno noiosi, se aveste gettato la penna per impugnare la vanga!»[3].

Una visita al bellissimo Museo di Roma ospitato nelle sale dello stesso Palazzo[4] sarà un’utile integrazione alla piccola ma affascinante mostra. Sarà così possibile scoprire come fosse il Pantheon con le sue Orecchie d’asino (i campanili realizzati da Bernini e fatti demolire nel 1883); scoprire come fosse il quartiere di Borgo prima che i lavori di via della Conciliazione vanificassero l’elemento sorpresa che il cavalier Bernini aveva studiato per i pellegrini che dalle anguste viuzze del quartiere si dovevano trovare rapiti nell’arioso abbraccio del suo colonnato, effetto straordinario che spesso raccontava Alberto Sordi ricordando la sua Roma ormai sparita. Ogni tela suggerirà allo spettatore un indovinello e non sempre sarà facile individuare subito il sito rappresentato. In un’opera di Ippolito Caffi vi è una Piazza San Giovanni ancora immersa nelle sterpaglie di una periferia che sconfina nell’aperta campagna. Il senso di pace e silenzio che ispira, stride con il risuonare di clacson e motori che riecheggia alle orecchie dello spettatore di oggi. Vedrete la Meta Sudans (prima che i lavori per l’apertura di via dell’Impero ne decretassero la demolizione), i Mercati di Traiano (creduti ancora i Balnea Pauli), Piazza Navona senza le sue fontane e la sua bella chiesa barocca. E poi le feste, e che feste: il carnevale romano e le corse dei Berberi, le prese di possesso dei pontefici, l’albero della cuccagna, fiere, mercati, allegre scampagnate e gli immancabili fuochi pirotecnici.

Molte delle opere esposte sono di artisti stranieri, fatto questo che ci porta alla considerazione più amara. C’è stato infatti un tempo, non molto lontano, in cui non poteva dirsi artista, pittore o poeta che fosse, colui che non fosse stato almeno una volta in Italia, colui che non avesse almeno una volta ammirato le rovine di Roma. Ogni nazione vantava una sua Accademia in Italia. Il Grand Tour era un viaggio dell’anima prima ancora che della cultura, e Roma era il grande faro che illuminava gli spiriti di tutta Europa. Così scriveva commosso Goethe al suo arrivo nella Città Eterna, il 1 novembre 1786: «Sì, finalmente mi trovo in questa capitale del mondo! (…) L’ansia di giungere a Roma era così grande, aumentava tanto di momento in momento, che non avevo tregua, e sostai a Firenze solo tre ore. Eccomi qui adesso tranquillo e, a quanto pare, placato per tutta la vita. Giacchè si può dir davvero che abbia inizio una nuova vita quando si vedono coi propri occhi tante cose che in parte già si conoscevano in ispirito. Tutti i sogni della mia gioventù li vedo ora vivere…»[5].

E così ricordava Stendhal ai suoi lettori: «ci si annoia a Roma qualche volta durante il secondo mese di soggiorno, mai durante il sesto; e se si resta per un anno, si comincia a desiderare di rimanervi per sempre»[6].

Ogni mostra ben riuscita dovrebbe lasciare qualcosa in chi l’ha visitata. Luoghi Comuni dovrebbe far ricordare con orgoglio che ci troviamo in una città universalmente ritenuta una tappa obbligata per lo sviluppo culturale di ogni cittadino europeo, che intorno a noi sono conservati dei tesori che lo scempio di una politica poco accorta e l’indifferenza di una cittadinanza spesso distratta stanno facendo via via scomparire, irrimediabilmente. Proprio dalla crisi economica che stiamo vivendo potrebbe forse venire una nuova attenzione a quello che è il nostro vero, unico (perché solo nostro!) tesoro.

L’oro non sempre luccica, a volta ha il colore anonimo di un muro di laterizi…

Flavia Calisti

Luoghi Comuni. Vedutisti francesi a Roma tra il XVIII e il XIX secolo, Roma, Palazzo Braschi, 08/02/2012-27/05/2012

Bibliografia

Marie-Henry Beyle detto Stendhal (2004), Passeggiate Romane, traduzione di M. Colesanti, Garzanti, Milano

Johan Wolfang von Goethe (1993), Viaggio in Italia, traduzione di E. Castellani, Mondadori, Milano

FOTO

hubertrobert.jpg

Hubert Robert, La Tomba del somaro nella Pineta Sacchetti, 1765

[1] Potreste anzi raccontarci la vostra esperienza nella sezione “commenti” per ricreare insieme un po’ di quella memoria collettiva che oggi tende ahimè a svanire!

[2] PIAZZA NAVONA

Se pò ffregà Piazza-Navona mia

e dde San Pietro e dde Piazza-de-Spaggna.

Cuesta nun è una piazza, è una campaggna,

un treàto, una fiera, un’allegria.

Va’ dda la Pulinara a la Corzía,

curri da la Corzía a la Cuccaggna:

pe ttutto trovi robba che sse maggna,

pe ttutto ggente che la porta via.

Cqua cce sò ttre ffuntane inarberate:

cqua una gujja che ppare una sentenza:

cqua se fa er lago cuanno torna istate.

Cqua ss’arza er cavalletto che ddispenza

sur culo a cchi le vò ttrenta nerbate,

e ccinque poi pe la bbonifiscenza.

Roma, 1° febbraio 1833

[3] Stendhal, p. 171

[4] Che si troverà ad essere presto ulteriormente ampliato.

[5] Goethe, 1993, p. 138

[6] Stendhal, 2004, p. 102

 
 
 

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