Caput mundi (Calisti, Flavia)
- preside713
- 1 lug 2013
- Tempo di lettura: 5 min
Presso le sedi espositive del Foro Romano e del Colosseo è stata ospitata, un’interessantissima mostra volta a far conoscere un popolo assai poco noto: gli antichi Romani. I Romani che crediamo di conoscere sono infatti il più delle volte quelli artefatti del grande schermo e mai come in questa mostra si è tentato di restituirne una visione quanto più completa e scevra da luoghi comuni. L’operazione ardita e riuscitissima è opera di uno dei più grandi conoscitori della cultura romana – Andrea Giardina, il quale aveva già dedicato a tale obiettivo diversi lavori, come L’uomo Romano o Il mito di Roma da Carlo Magno a Mussolini.
La mostra suggerisce una serie di spunti che permettono di comprendere perché Roma sia diventata, da piccolo abitato del Latium Vetus, la megalopoli Caput mundi.
Nella Curia si ripercorreva la sua oscura nascita, aggregato di manigoldi riuniti nell’asylum Romuli e di Sabine rapite ai propri cari. Proprio questa origine così poco lusinghiera, che a differenza degli altri popoli antichi non conosceva il concetto di autoctonia e la conseguente chiusura verso chi dalla terra del luogo non fosse nato, fu la vera forza dei Romani. Roma città aperta dunque, aperta alle altre culture, in primo luogo alla etrusca e alla greca, dalle quali prenderà usi, costumi e talvolta dèi. Roma città aperta agli stranieri, che potranno anche sedere sul suo trono e governarla, come ci illustrano gli affreschi della Tomba François di Vulci. Roma città aperta al merito, come ci ricorda la Tavola di Lione, manifesto della capacità di integrazione dei Romani, pronti ad assimilare e rendere cittadino chiunque fosse utile alla propria grandezza. Roma terra in cui, come scriveva entusiasticamente Elio Aristide, «tutte le opportunità sono a disposizione di tutti» e in cui chiunque è ritenuto degno non è straniero.
La sezione ospitata al Colosseo documenta come l’integrazione non sia stata certo sempre facile, la concessione della cittadinanza agli Italici fu ottenuta a costo di una sanguinosa guerra (una moneta coniata dai ribelli in tale occasione mostra per la prima volta la legenda: Italia). Mostra però altresì come i Romani non imponessero il loro modello di vita ai popoli sottomessi, e come anzi la romanizzazione dei vinti sia stata spesso un fenomeno spontaneo, dettato dalla volontà di entrare a far parte dell’élite che amministrava il potere. I Romani stessi del resto erano aperti a influssi allogeni, ne è un esempio il fascino subito dalla cultura greca, dalla Grecia capta, in quegli aspetti però che non entravano in contrasto con il mos maiorum, il costume austero dei padri. I reperti esposti nelle vetrine mostrano l’orgogliosa partecipazione di uomini provenienti dai quattro angoli dell’Impero alla sua espansione e alla sua difesa, nonché il ruolo avuto da imperatori “stranieri”, come Traiano (il primo imperatore non italico), Settimio Severo (l’Africano) e Massimino il Trace (il barbaro). È significativo che proprio all’interno del monumento trasformato in simbolo delle persecuzioni religiose messe in campo dai Romani si aiuti a sfatare questo luogo comune duro a morire. Ne è sufficiente un solo esempio: la prima repressione messa in campo dai Romani contro una comunità religiosa risale al 186 a.C., al celebre scandalo dei Baccanali. La dura reazione dello Stato fu fatta contro cittadini Romani, aderenti al culto di un dio del pantheon romano, la causa della repressione non fu infatti di matrice religiosa, ma semplicemente di ordine pubblico. Molti culti subirono un simile trattamento, ad esempio il culto di Cibele o quello di Iside, rientrati i comportamenti ritenuti lesivi del mos maiorum o pericolosi per l’ordine pubblico, i fedeli potevano tranquillamente tornare a venerare i loro dèi. Si vedono così sfilare nelle vetrine lunghe teorie di dèi orientali, assimilati ad altrettante divinità del pantheon romano, aperto, come per tutte le religioni politeistiche, alle deità altrui. Lo stesso discorso varrà per Cristiani ed Ebrei, dei quali i Romani biasimavano il cieco fanatismo e la testarda irriducibilità a modelli di comportamento ritenuti altrettanti atti di lealtà nei confronti dello Stato. Una questione politica dunque, non religiosa. Molte iscrizioni documentano la vita della grande comunità ebraica di Roma, comunità tra le altre nella multietnica popolazione dell’Urbs. Sarà il Medioevo ad inventare i ghetti e la segregazione. Ultima tappa di questa insolita visione di Roma quale città aperta all’alterità è quella dedicata agli schiavi. L’esistenza della schiavitù è un fenomeno tutt’altro che limitato, sia per quel che concerne l’antichità, sia per quanto riguarda tempi assai più vicini a noi. A Sparta il rapporto tra liberi e schiavi viaggiava nell’ordine di 1 a 7, nell’impero circa il 30% della popolazione era schiavo e le condizioni di vita erano spesso davvero proibitive per coloro che erano considerati sovente niente più che “oggetti parlanti”. Impressionano i compedes di uno schiavo morto durante un tentativo di fuga nell’ultima notte di Pompei o il collare con targhetta in cui si promette una ricompensa a chi avesse riconsegnato al suo proprietario l’eventuale fuggitivo. Non bisogna però dimenticare come anche per gli schiavi valesse la meritocrazia: i migliori potevano infatti essere liberati e riconquistare il loro status di individui, e i loro figli erano ritenuti cittadini a tutti gli effetti. Proprio in questa mobilità sociale il re Filippo V di Macedonia riconobbe il fondamento della potenza di Roma.
Alla luce di tutte queste considerazioni da dove ci viene dunque quella visione dei Romani spietati e sanguinari, sadici conquistatori e intransigenti persecutori? La sezione della mostra ospitata nel Tempio del Divo Romolo ce ne fornisce un indizio. La romanità fu infatti utilizzata politicamente dal regime fascista per legittimare tutta una serie di suoi orientamenti. Si guardava al romano disciplinato soldato, all’infaticabile colono, all’austero pater familias, ma, laddove non si trovava un esempio corrispondente alle proprie necessità, ecco che si piegava la verità storica alle più inverosimili falsificazioni. All’indomani della promulgazione delle leggi razziali Mussolini dichiarò che i Romani, proprio quei Romani nati da un miscuglio di popoli e genti, «erano razzisti all’inverosimile!». Solo allora i soldati dell’impero iniziarono a marciare con il passo dell’oca e a fare il saluto romano, ad avanzare compatti come nelle sfilate che il Duce sovrintendeva su via dell’Impero, in spazi immaginifici che sembrano usciti da tele di De Chirico più che dalle anguste vie dell’antica Roma. Propaganda politica, ricostruzione cinematografica e luoghi comuni si sono così saldamente saldati da restituire un’immagine spesso falsata e quantomeno parziale dei nostri illustri antenati. La mostra Caput Mundi ci svela finalmente l’altra faccia di questa Luna, molto meno nera di quanto potessimo immaginare.
Se poi davvero la storia potesse essere maestra di vita, come già auspicava Cicerone, il conoscere meglio le dinamiche che portarono a prosperare per circa dodici secoli la civiltà romana, la prima grande società globale della storia, ci dimostra come l’apertura verso l’Altro, lo straniero, la sua cultura e la sua religione, non sia segno di debolezza, quanto piuttosto di estrema lungimiranza. I Romani non parleranno quasi mai di integrazione dal punto di vista della sua opportunità morale, ma, come farà l’imperatore Claudio nel suo discorso ai senatori di Roma per propiziare l’accesso dei notabili Senoni, per semplice opportunità: integrare quelli che un tempo furono nemici, rendere partecipi della cosa pubblica il maggior numero possibile di individui, donerà nuova forza allo Stato. Prendere il meglio delle altre culture, includere nel corpo civico chiunque sia ritenuto meritevole, senza guardare alla sua provenienza geografica o sociale, ecco una lezione che varrebbe la pena imparare.
Flavia Calisti
FOTO

Vulci, Tomba Francois, Liberazione di Celio Vibenna. (da sin. Caile Vipinas è liberato da Macstarna – identificato con Servio Tullio)….

All’interno della sezione della mostra “Roma. Caput Mundi” ospitata al Colosseo

Manifesto all’esterno della sezione della mostra “Roma. Caput Mundi” ospitata nel Tempio del Divo Romolo

Copertina del n. 16, Anno III, giugno 1940 de “La Difesa della razza”
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