E in mezzo scorre il Fiume (Calisti, Flavia)
- preside713
- 24 set 2012
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E in mezzo scorre il Fiume.
C’è una frase che mi piace ripetere spesso: “È la geografia che fa la storia”.
Roma non sarebbe forse diventata la capitale del mondo se non fosse sorta lì, presso l’Isola Tiberina, e presso quel fiume che la “cingeva come fosse la sua bella”[1], placido sotto lo sguardo di quei sette colli che oggi si fa difficoltà a distinguere. Autostrada dell’Antichità il Tevere permetteva traffici con l’intero bacino del Mediterraneo (vi è stato anche chi ha supposto un’origine fenicia per il culto dell’Ara Massima). Permetteva di commercializzare il sale, vero e proprio oro bianco per la sua capacità di conservazione dei cibi. Il suo guado era transito obbligato per le genti che dall’Etruria[2] si spingevano verso la ricca Campania. Di qui passavano i mandriani che conducevano le greggi verso i pascoli estivi, come ricorda il mito di Ercole, giunto alle pendici del Palatino con le pingui vacche rubate a Gerione. Non a caso il Tevere era un dio, Tiberino, detto Pater. Dove oggi sorgono gli uffici dell’Anagrafe un tempo vi era il porto fluviale di Roma, e il tempio erroneamente detto della Fortuna Virile era in realtà dedicato a Portunus, appunto il dio del porto. Qui giungevano le merci provenienti da Ostia, fatte risalire controcorrente su delle chiatte. Da qui ripartirono barche piene di detriti per svuotare Roma dalle macerie del grande incendio neroniano. Qui giunsero degli dèi, portati via mare da terre lontane. Su una nave appesantita dal suo divino peso giunse infatti nel 291 a.C., sotto forma di maestoso serpente, il dio Asclepio, che sull’Isola trasformata in suo onore in marmorea nave, venne cultuato con il nome di Esculapio. Si incagliò invece lo scafo che trascinava a Roma, nel 204 a.C., la Grande Madre, e solo le mani pure di Claudia Quinta riuscirono a guidare in porto la nave: “la dea si muove, segue la guida, e seguendola la elogia”, cantava Ovidio[3].
Nei pressi dell’Isola sorgeva il più antico ponte della città, quel Pons Sublicius difeso strenuamente da Orazio Coclite contro gli Etruschi di Porsenna, il ponte dal quale annualmente le Vestali gettavano gli Argei, simulacri di uomini fatti di giunco, in un rito tanto antico che ormai i Romani stessi ne avevano dimenticata l’origine. Ed antico, anzi antichissimo, era il ponte di quercia. Così antico che secondo alcuni il nome di pontifex (pontefice, sacerdozio pagano prima che cristiano) sarebbe secondo alcuni semplicemente “colui che fa (sa fare) il ponte”, ovvero sa mantenere in uso un luogo estremamente sacro per i Romani, il ponte Sublicio, appunto. Un luogo così sacro da essere inalterabile, mai infatti fu ricostruito in pietra, ma sempre in legno, con chiodi in bronzo (essendo forse allora più antico ancora dell’uso del ferro….).
Poco lontano un altro ponte ci ricorda però l’altro volto del fiume, è il Pons Aemilius, oggi Ponte Rotto, travolto dai “violenti flutti” del fiume, che più volte fecero “temere alle genti che tornasse il secolo di Pirra”[4], ovvero del diluvio universale così come i Greci lo raccontavano. La Barcaccia[5], le iscrizioni commemorative dell’altezza raggiunta dalle varie piene sulla facciata della chiesa di Santa Maria sopra Minerva, ovunque, a saperle cercare, si trovano le tracce delle piene che hanno funestato la città, coprendo – sotto una coltre di detriti – strati e strati di storia. Insomma, sembra un paradosso, ma la Roma antica non si sarebbe conservata senza le distruzioni impostele dal fiume.
Oggi è possibile riscoprire questo fiume, l’ormai non più troppo biondo Tevere[6]. Tra molte difficoltà e nell’innegabile stato di abbandono che lo affligge, alcune compagnie di battelli portano turisti e scolaresche a scoprire la storia del fiume. La prima cosa che colpisce è l’inaspettata fauna che si può incontrare: aironi, nutrie, tartarughe, tutte pronte a far capolino dall’acqua al passaggio dei battelli e delle loro offerte di cibo. Poi come sempre è la storia a disvelare la magia del luogo, una magia che neanche l’incuria può cancellare. Il fiume si può percorrere nei due sensi. Dalla foce, da Ostia Antica o dal Porto di Traiano, si può risalire la corrente, come per secoli hanno fatto i barcaioli, e come un tempo, racconta il mito, fece il pio Enea in fuga da Troia. Scendendo, lasciandosi Roma alle spalle, ci si potrà far guidare dal sommesso lamento che all’inizio del V secolo Rutilio Namaziano, salpando verso la Gallia, scrisse in onore di Roma:
Prestami ascolto, bellissima regina del mondo interamente tuo,
ascolta fra le celesti, Roma, volte stellate.
Prestami ascolto, tu madre degli uomini, madre degli dèi:
grazie ai tuoi templi non siamo lontani dal cielo.
Te cantiamo e canteremo, sempre, finché lo concederanno i fati,
nessuno può essere in vita e dimentico di te.
…
Hai fatto di genti diverse una sola patria,
la tua conquista ha giovato a chi viveva senza leggi:
offrendo ai vinti l’unione nel tuo diritto
hai reso l’orbe diviso unica Urbe.
…
Te, dea, celebra te, romano, ogni angolo della terra
Portando sul libero collo un pacifico gioco.
Tutte le stelle nelle loro orbite eterne
Non hanno visto mai un impero più bello[7].
Famoso è il celebre saluto a Roma
« Exaudi, regina tui pulcherrima mundi,
inter sidereos, Roma, recepta polos;
exaudi, genetrix hominum genetrixque deorum:
Non procul a caelo per tua templa sumus.
Te canimus semperque, sinent dum fata, canemus:
Sospes nemo potest immemor esse tui.
Obruerint citius scelerata oblivia solem
quam tuus e nostro corde recedat honos.
Nam solis radiis aequalia munera tendis,
qua circumfusus fluctuat Oceanus;
volitur ipse tibi, qui continet omnia, Phoebus
eque tuis ortos in tua condit equos.
Te non flammigeris Libye tardavit arenis;
non armata suo reppulit ursa gelu:
Quantum vitalis natura tetendit in axes,
tantum virtuti pervia terrae tuae.
Fecisti patriam diversis gentibus unam;
profuit iniustis te dominante capi;
dumque offers victis proprii consortia iuris,
Urbem fecisti, quod prius orbis erat »
nella traduzione in lingua italiana di Giosuè Carducci:
« Del tuo mondo, bellissima
regina, o Roma, ascolta;
ascolta, nell’empireo
ciel accolta
madre, non pur degli uomini
ma d’ celesti. Noi
siam presso al cielo per i templi tuoi.
Ore te, quindi cantisi
sempre, finché si viva;
dimenticarti e vivere
chi mai potrebbe, o diva?
prima del sole negli uomini
vanisca ogni memoria,
che il ricordo, nel cuor, della tua gloria.
Già, come il sol risplendere
per tutto, ognor, tu sai.
Dovunque il vasto Oceano
ondeggia, ivi tu vai.
Febo che tutto domina
si volge a te: da sponde
romane muove, e nel tuo mar s’asconde.
Co’ suoi deserti Libia
non t’arrestò la corsa;
non ti respinse il gelido
vallo che cinge l’Orsa;
quanto paese agli uomini
vital, Natura diede,
tanta è la terra che pugnar ti vede.
Desti una patria ai popoli
dispersi in cento luoghi:
furon ventura ai barbari
le tue vittorie e i gioghi;
ché del tuo diritto ai sudditi
mentre il consorzio appresti,
di tutto il mondo una città facesti. »
Chi potrebbe credere che chi scrisse tali versi viveva ormai in una città in pieno declino, e soprattutto, chi potrebbe mai pensare che a scrivere con tale struggimento fosse un Gallo, un celtico – per far intendere con maggior chiarezza quali fossero i sentimenti dei “veri” Galli, Narbonensi o Cisalpini che fossero, dell’epoca – costretto ad abbandonare l’amata città, madre di civiltà e cultura, per la sua terra natia.
Insomma, non si può dire di conoscere Roma se non si conosce il suo Fiume, la sua storia, la sua poesia.

Flavia Calisti
BIBLIOGRAFIA
Luigi Pirandello (1901), Pianto del Tevere.
Publio Ovidio Nasone, Fasti
Publio Ovidio Nasone, Satire
Claudio Rutilio Namaziano (1993), De reditu suo, a cura di A. Fo, Einaudi, 1993
[1] L. Pirandello, v. 17.
[2] All’epoca era etrusca la sponda destra del fiume, che costituiva un confine naturale tra due mondi. È curioso pensare come la zona “più romana de Roma”, Trastevere, fosse allora terra straniera!
[3] Ovidio, Fasti, IV, 327.
[4] Orazio, Satire, I, 2, 5-6.
[5] Che la tradizione vuole ispirata ad un relitto trascinato fino a Piazza di Spagna dall’inondazione del 1598.
[6] Flavus, biondo, era detto a causa dei sedimenti argillosi che tingevano le sue acque.
[7] De reditu suo I, vv. 42-82.
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