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Roma è invivibile! Parola di Giovenale (Calisti, Flavia)

  • Immagine del redattore: preside713
    preside713
  • 16 set 2015
  • Tempo di lettura: 5 min

Chi avesse imparato ad odiare i classici latini sui banchi di scuola, leggendo queste brevi righe forse avrà modo di ricredersi. La cosa che spesso maggiormente allontana dalla lettura dei classici è, oltre alle traduzioni spesso contorte e magniloquenti, la loro inevitabile inattualità. Ma siete davvero sicuri che sia così? La terza satira di Giovenale non sembra affatto dimostrare i suoi quasi due millenni… Racconta di Umbricio, un amico di Giovenale che, a malincuore, ha deciso di abbandonare Roma, città per lui divenuta invivibile. Il perché è presto detto, ecco le motivazioni che egli adduce al suo amico scrittore.

Prima di tutto il poveretto si trova a vivere nell’equivalente di una nostra borgata (che però all’epoca si trovava a pochi passi dal Colosseo!), la Suburra, quartiere popolare e malfamato, degradato e pieno di pericoli. Se ciò non bastasse è l’intera città ad essere ormai invisa ad un onesto cittadino “dal momento che non c’è posto per i mestieri rispettabili, non c’è ricompensa per le fatiche, ed il patrimonio è oggi minore di ieri” [1]. Il povero Umbricio e la sua famiglia sono costretti ad andarsene “via in esilio dalla patria”, poiché qui si trovano a loro agio ormai solo coloro che non hanno scrupoli[2]. La città è poi letteralmente invasa da numerosissimi immigrati, quelli di allora non sono Cinesi, Rumeni o nordafricani, sono i Greci, che hanno portato con sé, a dire di Umbricio, una lunga serie di esecrabili mestieri (“tutto conosce il grecuzzo… affamato”, commenta), primo fra tutti la prostituzione. Dimentica certo il povero migrante di ricordare quali straordinari apporti alla cultura i Greci abbiano però offerto alla città, e forse lo dimentichiamo anche noi… Fatto sta che per lui i discendenti di Pericle rubano il lavoro!

Altro tasto dolente della decadente Roma è l’alto costo della vita, “anche una cenetta modesta costa cara”. Tutti aspirano ad ostentare preziosi servizi da portata ed abiti costosi, mentre in buona parte della Penisola “nessuno assume la toga… se non da morto”, mentre a Roma “lo splendore dell’abito va al di là delle personali possibilità economiche (…), qui tutti viviamo in una povertà… che ha ambizione di apparire!” e amaramente conclude: “tutto a Roma costa” (omnia Romae cum pretio).

Annoso problema della città è poi l’emergenza abitativa: “abitiamo una città che per gran parte poggia su sottili puntelli; per non parlare del fatto che a questi puntelli (i quali, come capita e come vediamo, vacillano!) si pone… come supporto l’amministratore: quando ha coperto d’intonaco l’apertura di una vecchia fessura, ci invita a dormire senza preoccupazioni… con il crollo incombente!”. Agli speculatori ed alla manutenzione scadente si aggiunge poi l’inevitabile rischio di incendi, cui vittime predestinate sono gli abitanti degli ultimi piani. In un’epoca in cui risiedere in un attico o un superattico era segno di estrema indigenza, di una miserrima vita da dividere tra intemperie e piccioni, con faticosi scalini da salire e da non poter scendere una volta avvolti dal fumo. Gli squattrinati inquilini che vedono spesso bruciare i loro miseri alloggi (come il povero Codro che “perse tutto quel suo nulla”), si devono rassegnare, mentre se la stessa sorte tocca ad un qualche patrizio, ecco subito scatenarsi una gara di solidarietà che lo porterà in breve tempo a possedere una dimora ancor più bella di quella perduta (Nerone non fu in tal senso né il primo né l’ultimo…).

Insostenibile è poi a Roma il prezzo degli affitti, Giovenale ci informa che si può acquistare una casa a Sori, Fabrateria o Frosinone “allo stesso prezzo con cui qui a Roma prendi… tenebre in affitto per un anno”.

Che dire poi dell’inquinamento acustico? “Moltissimi malati qui a Roma muoiono svegli”, osserva. Questo perché “ci vogliono grandi ricchezze per poter dormire in città”, solo chi è protetto dalle alte mura e dalle molte stanze di una domus, può sperare di non essere disturbato dall’incessante transito notturno di mandrie e carri.

C’è poi il traffico. Non quello veicolare, perché appunto i carri (salvo quelli per trasporto di materiali edili) non potevano circolare di giorno, ma pedonale. Dopo l’incendio gallico Roma era stata ricostruita in maniera caotica e frettolosa, in modo che, commenta Livio “il suo aspetto è più quello di una città occupata, che non ordinatamente progettata”[3]. Le sue strade pertanto erano spesso strette, buie, polverose, in poche parole impraticabili. Sotto la Chiesa di S. Clemente si conserva un vicolo largo appena 80 cm.! I ricchi certo non avevano grandi problemi mentre sfrecciavano sulle loro lettighe, ma il traffico pedonale era un incubo, tra carreggiate ridotte ai minimi termini da commercianti abusivi[4] e la fanghiglia accumulatasi per la cattiva manutenzione[5], lo spazio lasciato al transito dei pedoni era esiguo, ed ecco allora gomitate, spintoni, piedi pestati e botte in testa.

Se il problema della circolazione stradale affligge i Romani di giorno, la criminalità è il maggior problema che si presenta al calar delle tenebre, tanto che è considerato ignavo chi va a cena fuori “senza aver fatto testamento”. C’è chi, col favore del buio, si libera delle immondizie e del contenuto del suo orinale, evitando di dover fare più e più rampe di scale, gettando tutto comodamente dalla finestra. Tanto che, osserva Giovenale “tanti pericoli di morte ci sono, quante finestre in quella notte stanno spalancate sveglie mentre tu passi!”. E ci si deve considerar fortunati se a cadere in testa è solo il contenuto del vaso da notte, e non il vaso stesso! Ci si imbatte poi spesso in sbruffoni ubriachi o signorotti che non vedono l’ora di far menar le mani ai loro sgherri, ed ecco allora le risse “se pur rissa è là dove tu bastoni ed io sono bastonato”, commenta Giovenale per bocca di Umbricio, “è la rissa che concilia il sonno!”. E nel silenzio delle ore più buie ecco il rumore dei ferri del mestiere di qualche scassinatore.

Umbricio chiude il suo sconsolato resoconto osservando come potrebbe far seguire a questi “altri e più numerosi motivi per la partenza”, ma il sole tramonta ed è ormai ora di andare.

Roma non è cambiata affatto, verrebbe da dire, o forse siamo NOI Romani che non cambiamo mai…

[1] Tutte le citazioni di Giovenale presenti in tale articolo sono tratte dalle Satire, a cura di G. Viansino, Mondadori, Milano 1990, satira III, pp. 112-131.

[2] Marziale, dal canto suo, cerca di dissuadere un amico che vorrebbe venire a Roma per cercar fortuna facendogli presente che neanche i grandi avvocati riescono a coprire, con i loro onorari, il costo di un affitto, che Roma pullula di poeti e letterati senza lavoro, e quando l’amico, ormai sconsolato, chiede comunque un consiglio perché vuole ciò nonostante venire a vivere nella capitale, Marziale sentenzia: “se sei onesto Sesto sarà un puro caso se riesci a viverci!” (Epigrammi III, 38, 14).

[3] Livio, Storia Romana V, 55.

[4] Marziale, Epigrammi VII, 66.

[5] Caligola, trovando un vicolo urbano particolarmente sporco, ordinò che fosse gettato un po’ del fango che lo ingombrava sulla toga del futuro imperatore Vespasiano, che all’epoca ricopriva la carica di edile, e dunque, tra l’altro, di addetto alla cura del decoro stradale (Cassio Dione, Storia Romana LIX, 12, 3).

 
 
 

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