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Marco Furio Camillo. Ovvero “quando i Romani amavano Roma” (Calisti, Flavia)

  • Callisti, Flavia
  • 6 lug 2015
  • Tempo di lettura: 5 min

Un tempo il Tevere costituiva il confine naturale tra il Latium e l’Etruria: di qua Roma, di là Veio. Le due città si erano sempre scontrate, a partire dai tempi di Romolo, per un motivo assai semplice: si disputavano il fondamentale controllo del guado del fiume e le preziose saline alla sua foce. Lo scontro fu così lungo ed estenuante che, quando le fonti romane lo raccontarono, lo immaginarono simile ad una nostrana guerra di Troia: dieci lunghissimi anni di guerra ed un ingegnoso espediente per far capitolare il nemico. Siamo nel 396 a.C., a seguito del fantasmagorico prodigio del lago di Albano, che aveva rischiato di straripare, i Romani seppero che ormai gli dèi davano il loro assenso alla distruzione di Veio. Fu allora che il dittatore romano Furio Camillo, novello Ulisse, ideò uno stratagemma. Non un cavallo di legno, ma un cunicolo sotterraneo, che avrebbe però sortito lo stesso scopo: far piombare nel cuore della ignara città un gran numero di armati. Sei squadre lavorarono con turni di sei ore, giorno e notte, finché l’opera non fu compiuta[1]. Mentre i sacerdoti etruschi celebravano un rito nel principale tempio della città, i soldati Romani uscirono in massa dal loro nascondiglio e fecero gran strage. Tradita dagli oracoli e abbandonata dai suoi dèi, Veio cadde.

“Così tramontò Veio – ricorda Livio – la più ricca città della gente etrusca, che diede prova della sua grandezza anche nel modo con cui cadde definitivamente: assediata per dieci estati e dieci inverni continui, più spesso vittoriosa che non vinta, fu infine espugnata, quando il destino la travolse, non con la forza ma per mezzo di uno stratagemma”[2]. La plebe di Roma, colpita dalla ricchezza della neo-conquistata città etrusca, chiese di potervisi trasferire, ma i patrizi si opposero, chiedendo come essi potessero preferire “una patria vinta ad una vincitrice”. Il progetto sfumò, Roma iniziò a guerreggiare contro altre città, finché anche lei, come Veio, venne abbandonata dal favore degli dèi. La causa di ciò fu una grave infrazione al diritto delle genti, e dunque un’offesa a Giove stesso, garante dei patti tra gli uomini. Ambasciatori della gens Fabia, inviati a Chiusi per trattare con i Galli, presero le armi contro i loro interlocutori, uccidendone il capo. I Galli marciarono allora su Roma e, nel 390 a.C., la misero a ferro e fuoco. Solo nuovi atti di pietà verso gli dèi riconcilieranno i Romani con i loro divini protettori e li salveranno dalla definitiva catastrofe. Atti di devozione pubblica (come la decisione, durante l’assedio sul Campidoglio, di non toccare, nonostante la fame, le oche sacre a Giunone, le stesse che avvertiranno i Romani del pericoloso avvicinarsi dei nemici) e privata (come quello di Fabio Dorsuone, che uscì dalle mura ed attraversò le linee nemiche per officiare un rito famigliare sul Quirinale), unitamente al ritorno al comando del grande eroe Camillo. Egli rientrò in città proprio mentre i Romani si accingevano a pagare un ignominioso prezzo per la liberazione della città. Fu in tale frangente che il generale rispose a Brenno ed alla sua pretesa di ottenere un riscatto in cambio della salvezza di Roma che con il ferro, non con l’oro, l’avrebbe riscattata. Ma la città liberata era un cumulo di macerie, ed ecco allora riaffiorare quel desiderio di spostarsi a Veio. È in tale circostanza che Camillo pronunciò una delle più belle dichiarazioni d’amore alla Città Eterna. Così egli arringò la folla dei suoi scoraggiati concittadini:

« io ero deciso a non ritornare[3] (…). Mi ha spinto ora a farlo non un cambiamento della mia volontà, ma il cambiamento della vostra sorte; non si trattava più evidentemente, che io fossi qui, in patria, ma che la patria continuasse a vivere (…). Ma perché, dunque, l’abbiamo strappata dalle mani dei nemici che la tenevano assediata, se, dopo averla riconquistata, proprio noi l’abbandoniamo? (…) Constatando l’enorme importanza che esercitano nelle vicende romane la pietà e la trascuratezza dei doveri religiosi, non vedete, o Quiriti, voi, or ora scampati dal naufragio in cui siamo incorsi per la disastrosa colpa precedente, quale nuovo atto d’empietà stiamo per commettere? La nostra città è stata fondata con i sacri riti dell’auspicio e dell’augurato (…), oggi, dico, queste rovine non devono assolutamente essere abbandonate (…). Ma quand’anche in tutta la città non si potesse far sorgere un edificio più bello o più ampio di quella capanna del nostro fondatore, non sarebbe preferibile vivere in capanne come i pastori e i contadini, vicino alle nostre cose sacre, ai nostri Penati, che non andare in esilio tutti indistintamente? (…) E quello che ciascuno di noi avrebbe fatto se la propria casa fosse stata distrutta dal fuoco, ci rifiuteremo di farlo, tutti quanti uniti, per un più vasto incendio? (…) Così poco dunque ci tiene legati il suolo della patria o questa terra cui diamo il nome di madre, e l’amore della patria per noi consiste solo in un’area in cui son rizzate delle travi? Ebbene, quando io ero lontano (…) ogniqualvolta io pensavo alla patria, la mia fantasia mi rappresentava vivo questo spettacolo: i colli e le campagne e il Tevere e tutta questa regione tanto familiare ai miei occhi, e questo cielo sotto il quale nacqui e fui educato: e vorrei, o Quiriti, che tale visione influenzasse voi ora con un senso di affetto a rimanere sul vostro suolo, anziché poi, quando l’aveste abbandonato, vi faccia languire in un senso di rimpianto ».

Le parole di Camillo suscitarono grande emozione nel popolo, soprattutto il riferimento all’elezione che esso aveva ricevuto in più occasioni dagli dèi come luogo di un impero che non avrebbe avuto mai limiti, né spaziali né, tanto meno, temporali. E fu proprio un messaggio inviato dal cielo (omen), a convincere i Romani che lì dovevano restare, che quello e solo quello era il luogo che li avrebbe resi grandi. Mentre il senato dibatteva la questione nella Curia, un centurione che guidava al suo esterno un’esercitazione militare, esclamò a gran voce: “signifer, statue signum, HIC MANEBIMUS OPTIME”, ovvero “alfiere, configgi l’insegna; qui staremo benissimo!”[4]. Il seguito lo sapete. I senatori accolsero l’augurio e “si incominciò alla bell’e meglio la ricostruzione di Roma”. Ed ora si capisce il perché della sua eternità quanto di quel suo carattere caotico e confusionario… “i laterizi furono forniti dallo Stato, concesso a ciascuno di prendere le pietre da costruzione e il legname dove volesse, previo l’impegno di portare a termine la costruzione entro l’anno. La fretta fece passar sopra alla cura di costruire vie dritte, fabbricando ciascuno dove trovasse un’area libera, senza badar troppo ai diritti di proprietà preesistenti. Ed è questa la ragione per cui le vecchie cloache, condotte all’origine sotto le vie pubbliche, ora passano talvolta anche sotto le case private e che la città presenti più l’aspetto di una occupazione di terreno che non di una città preordinata”[5]. Roma, come la mitica Araba Fenice, più volte rinacque dalle sue ceneri, le sue pietre ed i suoi marmi furono usati di volta in volta per edificare case e templi prima, palazzi e chiese poi. Nella sua stessa rinascita c’è la condanna alla sua endemica caoticità…

Oggi però, che la città sembra sempre più vittima di una devastazione meno repentina, ma certo più duratura di quella gallica, in cui tutto pare andare in rovina, condannato ad un lento, quanto inesorabile degrado, oggi in cui molti dibattono se non sia forse meglio lasciare queste macerie per cercare altrove maggior fortuna, forse dovremmo ascoltare le parole di quel centurione e ricostruire con coraggio la nostra città, insomma Romani, coraggio: HIC MANEBIMUS OPTIME!

Flavia Calisti

[1] Livio, Storia di Roma V, 19.

[2] Livio, Storia di Roma V, 22. La traduzione di questo, come degli altri passi di Livio, è tratta dall’edizione Mondadori a cura di G. e C. Vitali.

[3] Nonostante i meriti acquisiti nei confronti della patria infatti Camillo era stato costretto all’esilio.

[4] Livio, Storia di Roma V, 55.

[5] Ibidem.

 
 
 

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